L'albino e il tumuto


Le mie zie erano tonde e belle. Profumavano di manioca e quando camminavano facevano tintinnare le loro collane sopra i petti, grandi come le montagne del Kisantu. A me volevano bene le zie e anche io volevo bene a loro. Non mi costringevano a guardare la luce del sole e potevo restare al chiuso nella capanna senza ricevere nessun rimprovero. Con i miei zii era diverso. Alcuni di loro, avevo capito dai discorsi assembleari, davano ragione ai wakintu nel considerarmi un capriccio del tumuto. Altri, invece, dicevano che ero venuto al mondo così e basta.
I wakintu erano i nostri più accaniti nemici e spesso i miei cugini, insieme ai miei zii e al resto del villaggio, andavano da loro a prendersi a bastonate. Poi tornavano tutti rotti. Altre volte erano loro a venire da noi. Così di anno in anno. Con i wakintu avevamo in comune l’adorazione del tumuto. Tutte le cose dipendevano dalla benevolenza del tumuto. Se un serpente, per esempio, mordeva il polpastrello a qualcuno era perché glielo aveva ordinato il tumuto. Mia madre era stata punita dal tumuto, dicevano le zie, ed era morta per quello. Non so perché l’abbia punita, ma l’ha punita e adesso non c’è più. In un angolo della mia capanna c’era un tumuto di legno, con una testa allungata a tre apici e una scimmia col becco sulle sue ginocchia. Io non avevo mai visto dal vero una scimmia col becco, ma i miei cugini sì, dicevano che era più buona di quella con i denti.
A me piaceva il tumuto, anche se aveva punito mia madre. Era l’unica compagnia che avevo durante il giorno, quando i miei cugini andavano a caccia o giocavano a corda nel villaggio. A volte quando lo guardavo al buio mi chiedevo perché aveva mandato quell’insetto micidiale a conficcarmi il suo pungiglione per iniettarmi dentro tutto quel veleno che mi aveva tinto di bianco. Se non ci fosse stato nessun pungiglione con del veleno dentro ora mia madre mi potrebbe tenere sulle ginocchia, come il tumuto la sua scimmia. Di mio padre non so granché. Una volta una zia mi aveva detto che era stato ucciso da un animale durante una partita di caccia; un’altra zia, invece, mi aveva detto che era andato sulle montagne del Kisantu e che non era più tornato. Io non lo ho mai visto, a mio padre, e se lo ho visto, non me lo ricordo.
“Tu sei figlio del buio,” mi dicevano i miei cugini quando arrivava un temporale o c’era la secca. E quando una zia era morta strozzata da un male alla pancia, un mio cugino aveva detto che era tutta colpa mia: “Tu sei il lato nero del tumuto, per quello ti ha fatto tutto bianco e porti il buio tra di noi”. Alcuni mi sputavano addosso o mi lanciavano sassi. A me dispiaceva essere il lato nero del tumuto. Essere il lato nero del tumuto significava essere bianco con gli occhi rossi, e io invece volevo essere nero, come tutti i miei cugini. Se sei nero come i miei cugini puoi essere il lato bianco del tumuto e giocare a corda e guardare la luce del sole e farti fare del solletico sulla pianta dei piedi. A volte lo guardavo da vicino al tumuto, ma non lo toccavo mai; aveva gli occhi grandi come quelli di una civetta, mi mettevano paura gli occhi del tumuto.
Un giorno, mi ricordo, erano venuti tre wakintu a portarci un coccodrillo bianco come non si era mai visto prima. Io stavo accucciato vicino al tumuto; era entrato uno zio tutto di fretta e mi aveva presso per un braccio per portarmi fuori. La luce del sole mi aveva ferito gli occhi e non riuscivo a vedere nulla, solo sagome che si muovevano di qua e di là, ma dopo un po’, quando gli occhi mi si erano abituati, avevo notato che tutto il villaggio stava intorno a qualcosa buttata per terra e la guardavano e si dicevano: “Guarda, guarda”. Poi, quando mi ero avvicinato, avevo capito che era un coccodrillo.
“Vedi?” dicevano, “è tutto bianco come te”.
A me faceva impressione, quel coccodrillo morto per terra, lungo come una barca e con gli occhi aperti.
“Toccalo toccalo,” mi dicevano tutti, “dai, toccalo,” ma siccome io non lo toccavo, perché avevo paura di toccare quell’animale, anche se era morto, allora qualcuno mi aveva spinto e ci ero caduto sopra. Non avevo mai sentito la pelle di un coccodrillo. Era dura e faceva pensare alla crosta degli alberi. I wakintu dicevano che io avrei dovuto fare la fine del coccodrillo, altrimenti sarebbe stata la devastazione. Dicevano anche altre cose, ma io non capivo tutto, perché i wakintu quando parlavano tra di loro non si facevano capire dagli altri (gli zii dicevano che la loro lingua era stata rubata ai marabuku, che sono uccelli grossi che mangiano gli animali morti che stanno a terra). Comunque, dopo quelle parole una zia mi aveva presso per un braccio e mi aveva riportato dentro la capanna, e mentre fuori continuavano a parlare intorno al coccodrillo, io mi ero accucciato di nuovo vicino al tumuto. Lo guardavo, stava lì con i suoi occhi grossi senza dire niente.
“Non ti preoccupare, nessuno ti farà del male,” aveva detto mia zia, “è tutta colpa di quell’insetto che ti ha punto quando sei nato”.
“Anche al coccodrillo lo ha punto quell’insetto?” avevo chiesto.
“Sì, anche al coccodrillo,” aveva risposto lei.
Io non ero tanto sicuro di quella faccenda dell’insetto, ma ci credevo lo stesso. Del resto era una decisione del tumuto e, in qualunque modo lui avesse deciso di farmi bianco come il coccodrillo, la decisione era da accettarla. Anche la zia si era seduta vicino al tumuto e mentre lo guardava e cantava a bassa voce con le mani avanti come se volesse strozzarlo, una mosca nera gli si era posata sulla fronte. Lei l’aveva allontanata diverse volte e quella tornava sempre, nello stesso punto. Alla fine l’aveva lasciata perdere e quella era rimasta a saltellare sulla sua fronte. Poi era andata via da sola. Le mosche non venivano mai da me, andavano sempre dai miei cugini o dalle mie zie. E se una mosca, per caso, mi si posava sulla mano o sulla fronte, io la lasciavo fare. “Neanche le mosche ti vogliono,” mi aveva detto un mio cugino, sempre pieno di mosche intorno agli occhi. E quando un giorno una mi si era posata sul braccio mi ero alzato e ero corso a dirlo alle mie zie, perché lo dicessero ai miei cugini, ma appena mi ero mosso la mosca era volata via e non era più tornata.
“Zia,” avevo chiesto a mia zia, “ci sono le mosche bianche?”
“No, non ci sono”.
“E se per caso c’è una mosca bianca, le altre cosa fanno, l’ammazzano?”
“Non lo so”.
Le zie non sapevano mai niente di queste cose. Invece i miei cugini sapevano tutto quello che c’era da sapere. Qualunque cosa. Tu chiedevi e loro rispondevano, ma io non chiedevo niente a loro, perché dicevano sempre le cose brutte. Avevo chiesto solo la volta del coccodrillo morto, perché a un certo punto era scomparso e io ero in pensiero. Non mi avevano risposto, avevano detto solo che era dei wakintu e che sapevano loro che fine gli avevano fatto fare.
“Forse lo hanno restituito al fiume,” avevo detto.
“Oppure se lo sono mangiati”.
“Anche gli animali bianchi si mangiano i wakintu?”
“Certo.”
“Ma perché si diventa bianchi?”
“Non lo so,” aveva detto uno di loro. “Tu sei bianco perché tuo padre era bianco, un uomo grosso e puzzolente, arrivato in aereo. Poi se ne andato e non è tornato più”.
“Non è vero,” avevo detto.
“Invece sì, è venuto a caccia di animali”.
Una sera, durante una tamburata di luna piena, che preparava la stagione della caccia, ero uscito dalla capanna per andare a vedere la luna che si alzava sopra le vette del Kisantu. Era una bella notte e gli zii danzavano e bevevano intorno al fuoco col corpo cosparso di cenere. Anche le zie danzavano, e tutti avevano la faccia dipinta a strisce colorate e il corpo nudo. Io ero rimasto fuori dalla capanna a guardare la luna seduto su un tronco quando, all’improvviso, avevo sentito una bastonata sulla testa. Non tanto forte, ma abbastanza da sbattermi a terra e a lasciarmi un po’ stordito accanto al tronco. Non capivo cosa avessi fatto per meritarla, ma ci doveva essere una ragione. Poi mi avevano legato le mani e con una specie di scopino avevano cominciato a strofinarmi il corpo con un unguento colorato fino a dipingermi la pelle di rosso. A un tratto mi ero trovato vicino al fuoco. Da certe parole avevo capito che alcuni di loro non erano i miei zii, e neanche dei wakintu, perché non capivo tutto quello che dicevano, e anche se questo mi risparmiava di fare congetture sulla mia sorte, avevo paura di questi sconosciuti. Capita che certe tribù vadano ospiti da altre per mangiare le frattaglie dei giovani per rinvigorire lo spirito o per chiudere dentro la loro pancia la carne fresca di qualche sacrificato.
Sul fuoco affianco a me c’era uno spiedo con una stecca sopra. “Ma che, mi volete mangiare?” Non potevo pensare come questi stranieri potessero preferire la mia carne a quella di un bue o di una gazzella, per esempio. Tutto però mi faceva pensare che, nel caso mi avessero sacrificato, non mi avrebbero mangiato crudo, e questo già era qualcosa. Il fuoco si indeboliva sempre di più e pareva più disposto a spegnersi che a cuocermi. In quel momento mi ero chiesto diverse volte se la mia carne era uguale a quella dei miei cugini, oppure anche dentro era diversa. Comunque, l’idea di essere offerto a degli ospiti non mi piaceva affatto e anche se il fuoco non ardeva molto avevo chiesto lo stesso di slegarmi e di lasciarmi stare, altrimenti il tumuto, avevo detto, avrebbe staccato la loro testa e l’avrebbe fatta rotolare dalle cime del Kisantu fino al fiume. Le miei zie erano sparite tutte ed era inutile chiamarle per avere aiuto. Il mio corpo era diventato rosso e non riuscivo a distinguere le ferite, se mai ci fossero state.
La luna si era appena alzata sopra le vette del Kisantu ed era diventata tonda e bianca come non si era mai vista prima da allora. Ero rimasto lì vicino al fuoco per un buon tratto mentre i miei zii e quel gruppo di stranieri danzavano intorno a me. Poi si erano fermati all’unisono a guardare la luna che cresceva in dismisura. Sembrava un occhio gigante appoggiato sulle vette del Kisantu. Io tra me e me dicevo: “Aiutami, luna, fammi slegare”. A un certo punto, uno di questi stranieri, aveva alzato le braccia verso la luna, perché aveva capito che c’era qualcosa tra la luna e me; poi lo seguirono gli altri e infine tutto il villaggio. Dicevano “luna” e guardavano me; poi, “bianca” e guardavano ancora me. Alla fine mi avevano slegato, mi avevano tolto l’unguento con dell’acqua calda e mi avevano coricato per terra mentre tutti danzavano intorno, curandosi di non calpestarmi. C’era stato, sembrava evidente, un cambio di decisione repentino. Mi avevano alzato sotto braccio, mi avevano presso per le mani e per i piedi, nel frattempo tutti mi toccavano e ringraziavano la luna che si era alzata ancora di più sopra le montagne. Poi mi avevano portato dentro la capanna, dove mi aspettavano le zie, e mi avevano fatto dormire su un pagliericcio nuovo. Io non volevo dormire su quel pagliericcio, non ero abituato, ma loro insistevano che dovevo dormire lì lo stesso. Quella notte avevo sognato che ero un guerriero che combatteva da solo contro i wakintu. La mattina quando mi ero svegliato le zie mi avevano raccontato che gli zii, insieme ai cugini e al resto del villaggio, erano andati a prendere a bastonate i wakintu e che i wakintu erano scappati sull’altra sponda del fiume. Dicevano che era stata la luna ad aiutarli e che avevano finalmente capito che io ero figlio della luna e che la luna aveva parlato loro e così via. Io non sapevo se era un bene o un male. In ogni modo, avevo ringraziato il tumuto per questo riconoscimento e per la prima volta lo avevo accarezzato sulla testa.

Per saperne di più:
foto di Adrian Bravi Adrian Bravi: l'antieroe