L'intervista


opera di Man Ray: le forma di una donna ricordano la viola
"Le Violon d'Ingres" by Man Ray


Fa troppo caldo. Il trucco che ho sul viso deve essersi già mezzo sciolto. Le luci gialle posizionate davanti a me mi osservano come enormi occhi cattivi e quasi mi impediscono di vedere. Sono gli occhi di un mostro di latta programmato per non lasciarmi scappare. Forse, chissà. Ho la sensazione di essere qui da un’eternità, invece è passato appena un quarto d’ora. E’ tutto infinitamente noioso. Tutto già visto, già sentito, già raccontato. Le ferite sono state tappate perché alla gente il sangue fa paura. Le crepe sono state nascoste e io sembro una bambola di porcellana. Ma il trucco per dispetto mi si disfa sulla pelle minuto dopo minuto, e la presentatrice, che ancora fa finta di non accorgersene, ben presto mi passerà convulsa e piena di angoscia fazzoletti di carta, bianchi come gigli. Eppure una montagna di fazzoletti non basteranno a tamponare il sangue, e lei parlerà, riderà farà ancora finta di nulla nel suo vestito rosa confetto, ma inutilmente. Annegheremo tutti nel sangue, prima o poi. La voce piatta e educata, che risponde alle sue domande, non mi sembra neppure la mia. Riconosco solo la voce dentro di me; più alta, più insinuante, più intima e disperata. Come il suono di un violoncello.
-Nora, vuoi rivelarci a che età è iniziato il tuo rapporto con la musica?
Nora passa tutto il giorno a giocare con quell’affare… Ripete mia madre, affabile e distratta. Credo che le piaccia la musica. Non dovrebbe stare sempre sola, sempre in casa, sempre nella penombra. Andiamo pure, la troveremo al nostro ritorno dove l’abbiamo lasciata, stanne certo.
-Avevo cinque anni, ancora non andavo a scuola.
-Nella tua famiglia ci sono altri musicisti?
Proprio non si capisce da chi abbia ereditato un simile dono (dono?). Buffa bambina aliena. Strana, strana anche in questo. Quell’affare è troppo grande per lei, finirà per storcersi la schiena. Devo proprio comprarle qualcosa di più adatto. Ma cosa?
-No, io sono l’unica.
-E come mai proprio il violoncello, uno strumento, dopotutto, meno comune per i bambini rispetto ad altri, come il pianoforte o il violino?
Una domenica di pioggia. La porta della mia stanza è socchiusa; fa già quasi buio, me ne sto distesa sul letto ad ascoltare le gocce che battono sul tetto come i becchi di minuscoli uccelli. A un tratto qualcuno entra piano, senza fare rumore. Capisco che si tratta di Emilio dall’odore di sigaretta e di acqua di colonia. D’altra parte, chi altro potrebbe essere? I miei genitori, le mie sorelle sono tutti di là, nel soggiorno, insieme a decine di invitati. Mangiano, bevono, discutono. Non può essere che lui. Altri angeli, in giro, non ce ne sono: si potrebbe cercare per giorni e non se ne troverebbero. Emilio accende la luce. Ha in mano un grande pacchetto di cui non mi importa niente. Anzi, preferirei che non ci fosse perché è qualcosa tra di noi. Mi piacerebbe che fossimo soli. Ma per nessun motivo al mondo vorrei fargli dispiacere, così gli butto le braccia al collo e subito dopo, ridendo, strappo il nastro bianco e la carta dorata. Trovo una scatola di legno che racchiude a sua volta un oggetto strano, quasi più alto di me. Magico, senza ombra di dubbio.
-Un giorno Emilio, un amico di mio padre che era molto affezionato a me, mi regalò il suo violoncello. Capii subito che non si trattava di un giocattolo, ma di qualcosa di speciale. Ne fui affascinata e decisi di imparare a suonarlo.

-Fu quest’uomo a insegnarti a suonare?
Ogni singolo giorno, ogni singola ora, ogni singolo minuto passati a aspettare il sabato pomeriggio. Emilio mi ascolta suonare e ogni tanto accarezza appena i miei capelli del colore della neve. E’ una mano tesa verso la mia solitudine. Solitudine senza dolore, senza emozioni, senza domande. Le domande verranno più tardi. “Sono belli i tuoi capelli, Nora” – mi dice. Ma io non gli credo, perché a scuola, per colpa dei miei capelli, mi chiamano la vecchia bambina, e io la mia vecchiaia precoce la sento rimbombare come un’eco nel vuoto che ho dentro, dove spuntano solo piante secche e fiori appassiti.
-Sì, Emilio fu il mio primo maestro. Mi ha dato lezione per un paio d’anni, veniva a casa nostra quasi tutti i sabati pomeriggio. Prendeva il tè con i miei genitori poi saliva in camera mia e ci esercitavamo.
-Quand’ è che tu e i tuoi genitori avete deciso di rivolgervi a una scuola di musica? Immagino che questo Emilio abbia potuto condurti solo fino ad un certo punto.
Aspetto, aspetto invano. Ripenso a Emilio tutti i giorni, tutte le notti; mi rompo la testa. Cominciano le emozioni e le domande. Troppe. Mi tornano in mente la sua espressione triste e la paura che a volte impastava la sua voce. Infine lo perdono.
-Sinceramente, non so dire fino a che punto avrebbe potuto portarmi Emilio. Il fatto è che un giorno se ne è andato. E’ sparito, si è volatilizzato nel nulla.
-Allora a chi vi siete rivolti?
Siamo io e il violoncello, e è come essere ancora con Emilio. Nessuno mi accarezza più i capelli ma non ha importanza. I miei genitori mi ripetono distrattamente di passare più tempo all’aria aperta. Mi vestono di tutto punto quando vengono a casa i clienti di papà o le amiche della mamma. Per il resto, mi lasciano in pace. Anna e Carlotta, le mie sorelle più grandi, appartengono a un altro mondo, che non si incontra mai con il mio. Ma la mattina devo andare a scuola, e a scuola i compagni ridono di me e gli adulti mi trattano con finta compassione e distacco. Una mattina, non so più per quale motivo, entro in un’aula dove ci sono dei bambini e degli insegnanti. Appena apro la porta, uno scroscio di risate mi investe come un treno che mi fa a pezzi. E’ una bella giornata, la stanza è inondata di luce e io, abbagliata, non vedo niente. Immagino le facce, i denti, le bocche da cui provengono quelle risate. Non mi chiedo perché stanno ridendo. Lo so già, l’ho sempre saputo anche se nessuno gli ha mai dato un nome. Gli adulti non dicono niente. Non vedo neppure loro, so che ci sono ma non li vedo e anche di loro devo immaginare l’espressione impassibile, solo appena alterata da una smorfia di pietà. Ci sono state altre mattine così, altre ce ne saranno. Ma a casa, ad aspettarmi, c’è l’anima di Emilio imprigionata nel violoncello, e come per incanto tutto torna a posto.
-Sul momento miei genitori non si rivolsero a nessuno. Non si erano resi conto che per me il violoncello era una cosa seria. Credevano che si trattasse solo di un gioco, di una stramberia di Emilio che in poco tempo sarebbe sparita dalla nostra casa come era sparito lui. Io però ho continuato ad esercitarmi da sola, tutti i giorni.
-Ma alla fine ti avranno pur fatto prendere lezione, non vorrai dirci che sei un’autodidatta!
Gli anni scivolano via uno dopo l’altro quasi silenziosi, accompagnati solo dal suono roco e malinconico del mio strumento che stringo tra le gambe come un amante. Ogni tanto qualcuno mi chiama, ma resta lontano.
-No, niente affatto. Mio padre, quando si è rese che per me la musica era davvero importante, cercò un’insegnante qualificata. Poi, all’età di quindici anni, mi hanno iscritta al conservatorio, e i miei studi li ho proseguiti lì. Ma il più ritengo di averlo fatto da sola: sono state le interminabili ore passate nella mia stanza, ad esercitarmi, che mi hanno permesso di fare il salto.
-D’accordo. Però devi raccontarci che fine ha fatto Emilio.
Una telefonata, di notte, molto tardi. Ancora la stessa voce, bassa, inconfondibile. I debiti mi erano entrati addosso come spine. Giocavo ogni notte, e ogni notte perdevo. Ho bruciato tutto. Ho bruciato anche te. Potrei dirti il contrario, ma mentirei. Da quando sono arrivato quaggiù, non ti ho mai pensata, neppure una volta. Buffo vero? L’avresti mai immaginato? Ma l’altro giorno ti ho vista in televisione. Mi ha fatto uno stranio effetto trovarti cresciuta: una parte di me era certa che saresti rimasta bambina per sempre. Sentendoti suonare ho pianto, così ho deciso di scriverti. Ma tu non cercarmi. E tutto qui, non c’è altro. La tua stanza nella penombra, un violoncello troppo grande per una bambina di soli cinque anni, i tuoi bellissimi capelli bianchi di cui ti vergognavi, e che ti accarezzavo facendoti arrossire. E’ questo tutto quello che siamo stati. Non c’è altro, credimi.
-Emilio mi ha telefonato qualche mese fa spiegandomi che era dovuto partire all’improvviso per un affare importante, di cui all’epoca non poteva parlare con nessuno. Adesso vive in Brasile, è molto ricco. Mi ha confessato di non aver mai smesso di pensare a me, e di aver seguito passo passo la mia carriera di violoncellista.
-Nora, cambiando argomento, vorresti parlarci del tuo primo amore?
Giorgio, perdutamente innamorato di me, mi aspetta all’uscita del conservatorio con un mazzo di fiori. Mi vuole parlare, gli trema la voce. Carlo cammina accanto a me nei pomeriggi d’autunno e mi racconta del suo progetto di diventare dottore o veterinario. Daniele mi ascolta suonare silenzioso, di nascosto, credendo che io non me ne accorga. Claudio mi chiede di sposarlo in un caldissimo pomeriggio d’agosto, al mare, davanti a un enorme gelato di frutta, quasi all’ora del tramonto. Ma io ho in testa solo Emilio. Emilio, e il nostro violoncello.
-Ve ne parlerei volentieri, ma credo di non averlo ancora trovato. Ho avuto delle storie, ma ripensandoci a posteriori, non userei la parola amore.
-Ti faccio una domanda forse un po’ personale. Come tu stessa hai talvolta ricordato, tu hai dei problemi di vista legati a una malattia genetica… Ti andrebbe di parlarne, e magari di spiegare se questo ha reso la tua carriera più faticosa oppure no?
La ragazzina albina che studia violoncello. Coraggiosa, senza dubbio. La ragazzina albina non vede bene. Pare che abbia difficoltà a leggere le note. Sorprendente. Una memoria sorprendente per la musica. Non legge, ricorda. Sorprendente. Coraggiosa. Non arriverà lontano, ma è coraggiosa. Non avrai paura della ragazzina albina spero. No, certo. Lei non può… Eppure…
-Non è sempre stato facile. Ma in effetti preferirei non parlarne. Scusami.
-Nessun problema! Dicci piuttosto quando sarà il tuo prossimo concerto.
-Tra un mese esatto, a New York
-Grazie Nora, in bocca al lupo. Un applauso per la bellissima, per la bravissima Nora, violoncellista romana di fama mondiale.
Il trucco ormai deve essersi sciolto del tutto. Il sangue esce dalle ferite. Presto annegheremo tutti. Il tuo vestito rosa confetto non ti servirà a restare a galla, e nemmeno questi stupidi applausi. Annegheremo tutti.