Una luminescenza impressionante

"Nettare in un setaccio" - pp. 162-167 -.  Kamala Markandaya. Edizione Feltrinelli

Nettare in un setaccio" è il  romanzo  più noto della scrittrice indiana Kamala Markandaya, che uscì in Italia nel 1956 nella traduzione dello scrittore Luciano Bianciardi, autore de "La vita agra".Il titolo è tratto da un verso del poeta inglese S.T: Coleridge:  "Lavoro senza speranza versa nettare in un setaccio, nè vive la speranza senza uno scopo".Il racconto è ambientato in un villaggio dell'India,  prima della lotta per l'indipendenza, quando  i propritetari terrieri  cominciarono a vendere le terre per destinarle all'industria  o a coltivazioni estensive, cacciando i contadini che vivevano del loro lavoro.La voce narrante è quella di una contadina che continua ad alimentare la sua speranza  e i suoi legami familiari anche nelle condizioni più difficili.In queste pagine, descrive la nascita del suo nipotino, che viene al mondo albino. Il racconto è condotto con realismo, attenzione  e serenità ammirevoli.

E' sorprendente notare come tutti i particolari del racconto, comprese le reazioni dei familiari e dei vicini, siano di sconcertante attualità, e parlino ancora alla nostra sensibilità nonostante la distanza nello spazio e nel tempo.

 

Quando raccolsi il bambino e lo presi in braccio, le paure, che fino allora erano state senza nome, mi investirono di nuovo, mi gridarono la loro condanna, non furono più senza nome.Non volevo che sua madre lo vedesse. Lo lavai lentamente e massaggiai con olio il suo corpicino, cercando di attenuare la sua bianchezza, sperando di dare colore alla sua pelle, mentre lui strillava vigorosamente, perché era un bambino sano. Infine, la madre lo reclamò. Lo avvolsi accuratamente in un panno prima di porgerglielo, sperando – sperando ancora – che non se ne accorgesse.
“Tuo figlio” – dissi, avvicinandole il fagotto, ansiosa.
Lo prese sorridendo e sospirò: “Che bel piccino – disse, fissando con amore il suo visetto – chiaro,  come un fiore."
 Chiaro! Anche troppo chiaro. Solo lei non vedeva quanto fosse innaturale quella chiarezza, e non notava che i capelli che spuntavano morbidi e radi  sulla sua testa erano del colore del chiaro di luna e i  suoi occhi erano rosa. Talvolta mi pareva che fosse impazzita: come poteva non vedere quello che agli altri era così evidente, oppure, mi chiedevo,  se la sua non fosse una tragica finzione dettata dall’orgoglio materno, sostenuta da chissà quale sforzo sovrumano. Tuttavia, se simulava, simulava bene: nel suo viso non traspariva segno di dolore o di paura. Era felice, come un uccello col suo piccolo che canta, gioisce con lui e lo vezzeggia come il più bel bambino che una donna abbia mai dato alla luce.
Forse, per lei era così: quell’ enorme peso non gravava sulle sue spalle, ma sopra di noi, soprattutto su Nathan.
“Ha perso la ragione – diceva – non vede suo figlio  come è, ma come lo avrebbe voluto. Per lei è soltanto chiaro, mentre invece non sembra altro che un topo bianco. Ella ha fatto del male a se stessa e al bambino e ora preferisce impazzire piuttosto che guardare in faccia la verità … La colpa è mia – mi disse -  girando lentamente sui talloni – avrei dovuto impedirlo. Che cosa crudele, al tramonto della nostra vita.”
“ Crudele sì, ma non insopportabile. Ira è felice e il bambino è sano.”
“L’ho visto al sole – riprese Nathan tristemente – fugge la luce e cerca l’oscurità, dove  si trova meglio. Per quanto piccolo, comincia già a rendersi conto della sua anormalità. “
“ Che sciocchezze dici – intervenni – rifugge la luce perché ha gli occhi deboli. Me lo ha detto Kenny, che questi bambini fanno sempre così “
“ Può darsi – replicò – chi lo sa? Ma, qualunque sia la ragione, è una cosa spaventosa a vedersi. Per gli uomini c’è la luce del sole, l’oscurità è fatta per i pipistrelli, le serpi, gli sciacalli e altre creature del genere.
”Il dolore lo faceva esagerare. Il bambino evitava solo la luce diretta del sole. Nella capanna, all’ombra di un albero, era perfettamente contento e se ne stava disteso a terra o attaccato a un ramo a succhiarsi le dita dei piedi e a ciangottare, come qualsiasi altro bambino.
Anch’io preferivo non vederlo nella piena luce del sole: la sua pelle chiara e trasparente come una membrana non faceva resistenza alla luce che gli trapassava profondamente la carne, illuminandola di una lucentezza spaventosa.
Inoltre, si scottava facilmente: bastava che stesse un’ora al sole che tante chiazze rosse e squamose gli spuntavano sul collo e sulla fronte e diventava nervoso. Tutti i miei figli, invece, erano cresciuti all’aperto e al sole s’erano irrobustiti.
La notizia raggiunse presto i posti più lontani e la gente venne a vedere il piccolo. Ne veniva tanta, sempre di più, col viso acceso di curiosità:  una curiosità che non pareva mai soddisfatta, per quanto stessero a guardarlo con gli occhi di fuori. Alla fine, se ne andavano via, facendo un mucchio di commenti per descrivere quel povero ranocchio albino. Alcuni erano più gentili, molti mostravano una compassione facile e inutile. Tutti se ne ripartivano con quell’evidente sollievo di chi ha visto qualcuno che sta peggio di lui.. […]
“E’ vero del bambino? La gente dice che è bianco come il latte.”
“E’ chiaro – disse Ira come sempre – Guardalo!”
E gli mostrò il bambino addormentato fra le sue braccia.
Kali si sporse tutta tremante dall’eccitazione, e in quel momento sfortuna volle che il piccino si svegliasse. Aprì i suoi deboli occhi rosa e cominciò a strillare vigorosamente. Kali arretrò d’un passo, come se qualcuno l’avesse aggredita e tutta la sua compassione svanì.
“ Ha un aspetto strano – disse con tutta franchezza – non è normale. Avete mai sentito parlare di un bambino con gli occhi color di rosa? “
Non sapevo che dire. Nathan guardava la donna astiosamente: non gli era mai piaciuta. Ira aveva sul volto un’espressione tesa, rigida, difensiva,  come se avesse ricevuto un colpo e stesse chiedendosi dove sarebbe caduto il prossimo.
“Allora, non lo sa – pensavo con un sentimento che somigliava al sollievo  - o, almeno, non sa tutto: nasconde bene quello che sa.”
Continuava il silenzio: ognuno aveva paura di parlare e i pensieri ondeggiavano nell’aria, gli occhi vagavano altrove e si abbassavano al suolo.  Poi sentii Selvam che si schiariva la voce  e subito tutte le teste sorprese, sollevate, vigili dopo quella sospensione, si volsero a lui.
“ E’ solo questione di colore – disse – o meglio: di mancanza di colore… Si tratta solo di abituarcisi. E poi, chi ha detto che questo sia il colore giusto e quello no?”
Le parole di un ragazzo (Selvam non aveva ancora sedici anni) ci fecero vergognare tutti.“.. ma… rosa”  balbettò Kali.
“ Un bambino  dagli occhi rosa non è peggio di uno dagli occhi castani -  disse, con uno sguardo freddo di rimprovero-  avresti dovuto capirlo con il tuo istinto di donna, se nessun altro te lo avesse detto.”
Le voltò le spalle con disprezzo e porse le dita al bambino.
Il piccolo, che fino allora aveva urlato robustamente, cominciò a calmarsi, emise due o tre vagiti, poi la sua bocca si aprì in una specie di sorriso e le sue dita si afferrarono a quelle di Selvam. […]
La sua simpatia per il figlio di Ira avvicinò sempre più Selvam alla ragazza. Fin dalla nascita  egli non si era fatto caso dell’albinismo del piccolo, lo accettava senza pensarci. Fin dall’inizio,  trattò Sacrabani  proprio come un bambino normale.
Peccato che questa fosse una battaglia perduta.  
Un atteggiamento simile, da parte sua e da parte nostra, non poteva bastare a convincere tutti gli altri.
Sacrabani era  isolato in partenza: un corvo bianco in  uno stormo di corvi neri, un chicco d’orzo in mezzo al riso.
Da quando ebbe quattro anni, Sacrabani dovette adattarsi  a fare il parassita, sempre ai margini della vita degli altri.
A causa della sua diversità, i bambini lo escludevano dai loro giochi: qualche volta, se mancava un giocatore, lo invitavano a unirsi a loro, ma non gli permettevano, per nessuna ragione, di entrare nel gioco senza il loro permesso. E così, con la speranza di essere chiamato, se ne gironzolava nei paraggi, umile e paziente.
Del resto, bastava la sua anomalia a metterlo in una condizione di inferiorità: la sua pelle non sopportava il sole e la luce gli feriva gli occhi. A vederlo accovacciato all’ombra, con il viso arrossato e gli occhi lacrimosi, quelli più grandi lo insolentivano, anziché provare pietà per lui.
Povero piccolo, doveva anche sopportare la curiosità di quelli che non lo avevano mai visto prima: lo fissavano, mormorando,  dandosi colpetti  di gomito  e  bisbigliando, mentre quelli che lo conoscevano facevano a gara per informarli.
Poi un giorno, spinto da chissà quali ingiurie, cominciò a fare domande, le prime di una lunga serie.   


Per saperne di più: 
 copertina libro: Nettare in un setaccio di Kamala Markandaya Kamala Markandaya

Scheda letteraria

Luciano Bianciardi