L'unico specchio della casa

"Il raduno", racconto tratto dalla raccolta “Il paese d’ottobre”.  Ray Bradbury, scrittore americano, molto noto come autore di "Fahrenheit 451". Edizione Fantacollana Nord.


Che cosa non va in Tim, che tutti considerano malato?
Ad un raduno di famiglia, i parenti si sentono a disagio con la sua condizione: chi lo prende in giro, chi fa finta di non vederlo,  chi gli fa coraggio, con tenerezza o commiserazione, chi lo rassicura che, crescendo, diventerà come gli altri. Insomma, tutte le reazioni che si hanno con un “diverso”. Infatti Tim è proprio diverso dai suoi familiari, anche se non capiamo subito in cosa consista la sua diversità.
Capiamo, invece presto, che sono “loro” ad avere un rapporto strano con la condizione umana.
 
 
 
«Ecco che arrivano» disse Cecy, supina nel letto.«Dove sono?» esclamò Timothy dalla soglia.«Alcuni sono sull'Europa, alcuni sull'Asia, altri sulle Isole, altri ancora sul Sud America!» disse Cecy, tenendo chiusi gli occhi dalle lunghe ciglia castane e frementi.Timothy venne avanti sul tavolato nudo della stanza del piano di sopra. «Chi c'è?»«Zio Einar, zio Fry, il cugino William, e vedo Frulda, Hel-gar, zia Morgiana, la cugina Vivian, vedo anche zio Johann! Arrivano tutti a gran velocità!»«Sono alti nel cielo?» gridò Timothy. I suoi occhietti grigi lampeggiavano. In piedi accanto al letto non mostrava più dei suoi quattordici anni. Fuori il vento soffiava, la casa era al buio, rischiarata solo dalle stelle.«Arrivano attraverso l'aria e viaggiando al suolo in molte forme» disse Cecy, nel suo sonno. Non si muoveva, sul letto; pensava internamente e diceva quel che vedeva. «Vedo un es­sere simile a un lupo che attraversa un fiume scuro, sulle secche, appena a monte della cascata, e il lume delle stelle ri­luce sulla sua pelliccia. Vedo una foglia secca di quercia che si libra alta nel cielo. Vedo un pipistrellino che vola. Vedo molti altri esseri che corrono sugli alberi delle foreste e sgu­sciano lungo i rami più alti. Tutti vengono da questa parte!»«Saranno arrivati domani sera?» Timothy si afferrava alle lenzuola.
Il ragno sul risvolto del suo giubbetto oscillava co­me un pendolo nero, danzando eccitato. Egli si chinò sulla sorella. «Arriveranno a tempo per il Raduno?»«Sì, Timothy, sì» sospirò Cecy. S'irrigidì. «Non chiedermi altro. Vattene, adesso. Lasciami viaggiare nei luoghi che amo.»«Grazie, Cecy» egli disse. Una volta fuori nel corridoio, corse nella sua camera. Rifece il letto in fretta. S'era appena svegliato, qualche minuto fa, al tramonto, e poiché erano spuntate le prime stelle era andato da Cecy a sfogare la sua eccitazione per la prossima festa. Lei ora dormiva così tran­quillamente che non si udiva alcun rumore. Mentre Timothy si lavava la faccia, il ragno penzolava dal suo collo esile, in cima a un laccio argenteo. «Pensa un po' Ragno! Domani se­ra è la vigilia d'Ognissanti!»Alzò il viso e si guardò nello specchio. Era l'unico specchio ammesso in casa: una concessione di sua madre alla sua infer­mità. Oh, se solo egli non fosse stato così malaticcio! Aprì la bocca, osservò i denti mediocri, insufficienti, che la natura gli aveva dato. Erano appena dei granelli di granoturco, rotondi, teneri e pallidi, nelle sue gengive. Un po' del suo entusiasmo si spense.Adesso era venuto completamente buio ed egli accese una candela per vedere. Si sentiva esausto. Da una settimana, l'intera famiglia viveva all'antica maniera del paese natio. Dormiva di giorno, si alzava al tramonto per andare in giro. Egli aveva delle profonde occhiaie azzurre. «Ragno, non val­go niente» disse piano all'esserino. «Non m'abituo nemmeno a dormire di giorno come gli altri.»Prese il candeliere. Oh, avere denti forti, con degli incisivi simili a picche d'acciaio! O almeno mani forti, mente forte. Almeno avere la capacità di mandare la mente lontano, co­me Cecy. Invece no: egli era il minorato, l'ammalato. Aveva persino (tremò e si tirò più vicina la fiammella della candela) paura del buio. I suoi fratelli lo consideravano con disprez­zo. Bion, Léonard e Sam. Ridevano di lui perché dormiva in un letto.
Per Cecy, la faccenda era diversa; il letto faceva par­te della comodità occorrente per potere spedire la mente a caccia lontano. Ma Timothy, dormiva forse come gli altri, in quelle meravigliose casse lucidate? No! La mamma gli face­va avere un letto, una camera tutta per sé, uno specchio. Non c'era da meravigliarsi che la famiglia lo evitasse come il cro­cifisso d'un uomo di chiesa. Se almeno dalle scapole gli fos­sero spuntate le ali! Si denudò la schiena, la osservò. Trasse un altro sospiro. Macché. Neanche pensarci. Mai.Rumori eccitanti e misteriosi venivano dal pianterreno, il fruscio del crespo nero per parare tutti i corridoi, i soffitti, gli usci. E lo scoppiettio delle candele nere accese nel pozzo delle scale attorniato dalle balaustrate. Ecco la voce alta e decisa di sua madre. La voce del padre che risonava dall'u­mida cantina. Bion che veniva da fuori nella vecchia casa di campagna trascinando grandi orci da due galloni.«Devo proprio andare alla festa, Ragno» disse Timothy. Il ragno roteò all'estremità della sua seta e Timothy si sentì solo. Avrebbe lucidato casse, cercato funghi velenosi e ragni, appe­so crespi; ma, cominciata la festa, l'avrebbero ignorato. Meno si vedeva o si parlava del figlio mal riuscito, e meglio era.Abbasso, Laura correva per tutta la casa gridando allegra­mente: «Il Raduno! Il Raduno!». I suoi passi risuonavano dappertutto al tempo stesso.Timothy ripassò davanti alla camera di Cecy, che dormiva silenziosamente. Lei andava a pianterreno una volta al mese. Restava sempre a letto. La cara Cecy. Ebbe voglia di chieder­le: «E adesso, dove sei, Cecy? In chi sei? E che sta accaden­do? Sei oltre le colline? E lì che cosa succede?». Invece pro­seguì fino alla camera di Ellen.Seduta al suo tavolino, stava scegliendo fra varie specie di capelli, biondi, rossi e neri, e di piccole scimitarre d'unghia, raccolte grazie il suo lavoro di manicure al salone di bellezza del Mellin Village, a ventitré chilometri da lì. In un angolo stava una robusta cassa di mogano, con su il suo nome.«Vattene» gli disse lei, senza nemmeno guardarlo. «Non posso lavorare se stai lì a bocca aperta.»«Vigilia d'Ognissanti, pensa, Ellen!» egli disse, cercando di passare sul piano amichevole.«Uah!» Ella mise dei ritagli d'unghia in un sacchettino bianco, e lo segnò. «Che importanza ha, per te? Che cosa ne sai? Ti spaventerai da morire. Torna a letto.»Egli si sentì bruciare le gote. «C'è bisogno di me per luci­dare, far lavori, aiutare nel servizio.»«Se non te ne vai, domani troverai in letto una dozzina d'ostriche crude» disse Ellen con la massima naturalezza. «Ciao, Timothy.»Precipitandosi abbasso, rabbioso, si scontrò con Laura.«Bada dove vai!» ella strillò a denti stretti. E passò via im­petuosamente.Egli corse alla porta aperta della cantina, fiutò il tiraggio d'aria odorante di terra umida che veniva dal basso. «Padre?»«Era ora!» gridò il babbo, su per i gradini. «Presto, vieni giù, o saranno qui prima che noi si sia pronti!»Timothy indugiò appena quel tanto che gli permise d'udire mille altri rumori per la casa. I suoi fratelli andavano e veniva­no come i treni in una stazione, parlando e discutendo. Rima­nendo fermi in un punto, si sarebbe vista sfilare tutta la casa­ta, con le mani pallide piene di cose varie. Léonard, con la sua cassetta farmaceutica nera, Samuel reggendo sotto il braccio il suo librone polveroso rilegato in nero ebano e portando al­tro crespo nero, e Bion che compiva escursioni fino all'auto ferma fuori per portare in casa altri galloni di liquido.Il babbo s'interruppe di lucidare, per dare a Timothy uno straccio e un'occhiata corrucciata. Picchiò sulla grande cassa di mogano. «Su, lucida questa, che ne attacchiamo un'altra.»Mentre passava la cera sulla superficie, Timothy guardò l'interno.«Zio Einar è un omone, vero, papà?»«Uh-uh.»«Quant'è grande?»«Te lo può dire la dimensione della cassa.» «Dicevo per dire. È alto due metri e dieci?» «Parli troppo.»Circa le nove di quella sera, Timothy uscì, nel clima ottobri­no. Per due ore, nel vento ora tiepido ora freddo, egli andò per i prati a raccogliere funghi velenosi e ragni. Aveva di nuovo il cuore pieno d'aspettativa. Quanti parenti aveva detto mamma che sarebbero venuti? Settanta? Cento? Oltrepassò una fatto­ria. Se solo sapeste quel che sta succedendo a casa nostra, dis­se alle finestre illuminate. Salì su un'altura e guardò, a chilo­metri di distanza, la città che stava preparandosi al sonno, con l'orologio del palazzo comunale che spiccava alto, tondo e bianco in lontananza. Neanche la città sapeva niente. Portò a casa vari barattoli di funghi velenosi e di ragni.Nella cappelletta del sottoscala si celebrò una breve cerimo­nia. Fu uguale a tutti gli altri riti degli anni scorsi, con il babbo che cantava i versetti oscuri, la madre che con le belle mani eburnee impartiva le benedizioni alla rovescia, e tutti i figli presenti, eccetto Cecy stesa di sopra, a letto. Ma Cecy era pre­sente. Faceva capolino ora dagli occhi di Bion, ora da quelli di Samuel, ora da quelli della mamma, poi sentivi un sommovi­mento e ora lei era fugacemente in te, per sparire subito.Timothy pregò il Tenebroso, con una morsa alla bocca dello stomaco. «Ti prego, ti prego, aiutami a crescere, aiuta­mi a essere come i miei fratelli e sorelle. Non permettere ch'io sia diverso. Se almeno sapessi mettere i capelli nelle fi­gure di plastica, come fa Ellen, o far innamorare la gente di me, come fa Laura con la gente, o leggere libri strani, come fa Sam, o fare un lavoro stimato, come Léonard e Bion. O magari metter famiglia un giorno, come hanno fatto la mamma e il babbo...»A mezzanotte un temporale martellò la casa. Il fulmine cadeva, fuori, con saette stupefacenti, bianche come la neve. S'udiva un rumore come di tornado in arrivo, una tromba d'aria che tastava, risucchiava, annusava e aspirava l'umidore notturno della terra.
Poi la porta d'ingresso fu quasi sbal­zata dai cardini, rimanendo penzolante di sbieco, ed entra­rono il nonno e la nonna, arrivati dritti dal paese natio.Da quel momento in poi, arrivò gente a tutte l'ore. La fine­stra laterale svolazzò, fu bussato sulla veranda di facciata oppure alla porta di servizio, dalla cantina venivano chiassi pazzi, il vento d'autunno s'ingolfava giù per la gola del cami­no cantilenando. Mamma riempiva il cristallo della gran pa­tera da punch d'un fluido rosso, versato dalle bigonce porta­te a casa da Bion. Babbo andava di stanza in stanza ad accendere altre candele. Laura ed Ellen battevano altro aco­nito. E in mezzo a questo sfrenato trambusto Timothy stava, con il viso senza espressione, con le braccia penzoloni; a guardare di qua e di là. Sbattimenti di porte, risate, il rumo­re del liquido versato, tenebre, voce del vento, rombo palma­to di ali,.passi felpati, esplosioni di voci di benvenuto a ogni nuovo arrivo, vibrazioni trasparenti d'imposte, passaggio, ondeggiamento, andirivieni d'ombre.«Ma guarda, guarda! Questo dev'essere Timothy!»«Eh?»Una mano diaccia gli prese la sua. Un viso lungo e peloso si chinò su di lui. «Un buon ragazzo, un bel ragazzo» disse lo sconosciuto.«Timothy» disse sua madre «questo è lo zio Jason.»«Ciao, zio Jason.»«E laggiù...» La mamma si portò via zio Jason. Il quale si volse a dare una guardatina in tralice a Timothy, oltre le spal­le mantellate, e gli strizzò l'occhio.Timothy rimase solo.Nelle tenebre piene di candele egli udì, come mille chilo­metri lontana, una voce acuta e flautata. Era Ellen. Diceva: «I miei fratelli sono intelligenti. Indovina, zia Morgiana, qual è la loro occupazione?».«Non saprei davvero.»«Gestiscono l'impresa di pompe funebri della città.»«Che mi dici!» Un'esclamazione soffocata di meraviglia.«Proprio così.» Una risata stridula. «Non è buona, questa?»Timothy stava lì, fermo fermo.Una pausa fra le risa. «Il sostentamento, per mamma, papà, per tutti noi» diceva Laura «lo portano a casa i miei fratelli. Eccetto, naturalmente, Timothy...»Cadde un silenzio imbarazzato. La voce di zio Jason chie­se: «Ebbene? Su! Che ha, Timothy?».«Oh, Laura, quella tua linguaccia...» disse la madre.Laura continuò. Timothy chiuse gli occhi. «Timothy non... be'... non gradisce il sangue. È delicato.»«Imparerà» disse la mamma, con molta fermezza. «È fi­glio mio, imparerà. E ha solo quattordici anni.»«Ma io sono stato svezzato con esso» disse zio Jason con una voce che passava da una stanza all'altra. Fuori il vento suonava gli alberi come arpe. Un po' di pioggerella spruzza­va le finestre... mentre lo "svezzato con esso" si spegneva fio­camente.Timothy si morse le labbra e aprì gli occhi.«Be', è stata tutta colpa mia.» La mamma li stava conducen­do in cucina, adesso. «Ho cercato di sforzarlo. I bambini, quan­do sono piccoli, non bisogna sforzarli: serve solo a dar loro la nausea e così, poi, non prendono più gusto alle cose. Prendete Bion, per esempio: è arrivato a tredici anni prima di... »«Capisco» mormorò zio Jason. «Timothy si riprenderà.»«Ne sono certa» disse la mamma con tono di sfida.Le fiammelle delle candele rabbrividivano per le ombre che attraversavano e riattraversavano la dozzina di camere am­muffite. Timothy sentiva freddo. Sentì nelle narici odore di se­go caldo e istintivamente, afferrata una candela, andò in giro con quella per la casa, fingendo di mettere a posto i crespi.«Timothy» sussurrava qualcuno dietro un divisorio tap­pezzato, facendo sfrigolare e sibilare le parole. «Timothy ha paura del buio.»Era la voce di Léonard. Quell'odioso Léonard!«Mi piace la luce di candela, ecco tutto» disse Timothy in un bisbiglio di rimprovero.Altri tuoni, altri fulmini. Cascate di risa. Colpi metallici, tintinnii, grida, fruscii di stoffe. Attraverso la porta d'ingres­so irruppe una foschia viscosa e da questa foschia, ripiegan­do le ali, venne avanti un uomo alto.«Zio Einar!»Timothy si spinse, sulle sue gambucce, dritto nella fo­schia, sotto quelle grandi ombre verdi e palmate. Si gettò nelle braccia di Einar. Questi lo alzò da terra.«Hai le ali, Timothy!» Gettò in aria il ragazzetto leggero co­me una piuma. «Le ali, Timothy; vola!» Sotto, i volti roteava­no. Le tenebre vorticavano. La casa spariva in un soffio. Ti­mothy si sentiva come una brezza. Sbatteva le braccia. Le dita di Einar lo colsero e lo rimandarono al soffitto. Il soffitto veni­va giù come un muro carbonizzato. «Vola, Timothy!» gridava Einar, con voce forte e profonda. «Vola con le ali! Le ali!»Egli provava un'estasi squisita nelle scapole, come se vi crescessero delle radici, spingendo per esplodere e fiorire in membrana nuova e umida. Egli balbettava cose sconnesse; Einar lo lanciò in alto un'altra volta.Il vento d'autunno invadeva la casa come una marea, mentre la pioggia cadeva a rovesci, scotendo le travi, costrin­gendo i lampadari a inclinare le candele impazzite. E i cento parenti facevano capolino da tutte le camere nere e incanta­te, venendo a stringersi in cerchio, in tutte le loro forme e di­mensioni, attorno al punto in cui Einar bilanciava il ragazzi­no come un bastone di tambur maggiore negli spazi ruggenti.Finalmente Einar gridò: «Basta!».Timothy, esaltato, esausto, depositato sul tavolame del pa­vimento, si strinse a zio Einar, singhiozzando felice: «Oh, zio, zio, zio!».«T'è piaciuto volare, eh, Timothy?» disse zio Einar, chi­nandosi ad accarezzare la testa di Timothy. «Bene, bene.»L'alba s'avvicinava. La maggior parte era arrivata ed era pronta a coricarsi per le prime luci, dormire immobile senza  emettere alcun suono fino al tramonto successivo, quando sarebbe balzata gridando dalle casse di mogano, per la gran baldoria.Zio Einar, seguito da decine d'altri, si diresse in cantina. La mamma li guidava alle l'ile sovrapposte e stipate di casse tirate a lucido. Einar, con le ali simili a teli impermeabili ver­demare, ripiegate a tenda dietro di lui, si muoveva producen­do un curioso sibilo lungo il disimpegno; se le sue ali tocca­vano qualcosa, producevano il suono di pelli di tamburo battute piano.Di sopra, Timothy si sdraiò stancamente, cercando di amare il buio. Nelle tenebre si potevano fare tante cose sen­za temere le critiche della gente, che non aveva modo di ve­derti. In realtà, la notte gli piaceva; ma non senza riserva: talvolta la notte era tanta da farlo ribellare e gridare.In cantina, ante di mogano calavano e si chiudevano, tira­te dall'interno da mani pallide. Nei cantucci, certi parenti gi­ravano tre volte su se stessi per acciambellarsi, con la testa sulle zampe e con le palpebre chiuse. Sorgeva il sole. Tempo di dormire.Tramonto. La baldoria esplose come un nido di pipistrelli colpito in pieno, stridendo, svolazzando, sparpagliandosi. Le porte delle casse si spalancavano con un botto. Dei passi si precipitavano su dall'umidità della cantina. Altri ospiti in ri­tardo, che calciavano alle porte anteriori e posteriori, veniva­no fatti entrare.Pioveva, e gli ospiti inzuppati posavano su Timothy le mantelle, i cappelli picchiettati dall'acqua, i veli spruzzati. Egli li portava in uno sgabuzzino. Le stanze erano gremite. La risata di un cugino partiva da una stanza, deviava sulla parete di un'altra, rimbalzava, planava e tornava all'orecchio di Timothy, precisa e cinica.Un sorcetto attraversò di corsa il pavimento.«Ti conosco, nipotina Leibersrouter!» esclamò il babbo.Il sorcetto girò a spirale intorno a tre piedi femminili e scomparve in un angolo. Pochi attimi dopo, una bella donna sorta dal nulla stava in quell'angolo rivolgendo a tutti un sor­riso smagliante.Qualcosa si raggomitolava contro il vetro inondato della finestra della cucina. Sospirava, piangeva, bussava continua­mente, schiacciato contro il vetro; ma Timothy non riusciva a capirne nulla, non vedeva nulla. Con l'immaginazione, egli era fuori a guardare dentro. Pioggia e vento lo investivano, e all'interno le tenebre punteggiate di candele erano invitanti. Si danzavano dei valzer, alte e sottili figure volteggiavano al suono di una musica esotica. Dalle bottiglie alzate scintilla­vano stelline di luce, piccole zolle di terra si sgretolavano dai caratelli, e un ragno cadde e si allontanò silenzioso sgambet­tando sul pavimento.Timothy rabbrividì. Era di nuovo dentro casa, la mamma lo chiamava, gli gridava di correre qua, di correre là, di aiu­tare, di servire, fuori della cucina adesso, va' a prender que­sto, va' a prender quello, porta i piatti, ammucchia il cibo, e così via... la festa si svolgeva intorno a lui ma non per lui. De­cine di persone torreggianti si stringevano, lo spingevano, l'i­gnoravano.Alla fine, egli si girò via e sgusciò su per le scale.Chiamò piano: «Cecy. Dove sei adesso, Cecy?».Ella attese a lungo prima di rispondere. «Nella Imperiai Valley» mormorò fiocamente «accanto al Salton Sea, presso le molfette, fra i vapori, nel silenzio. Sono dentro la moglie d'un coltivatore. Sono seduta sotto una veranda. Posso farla muovere se voglio, o farle fare e pensare qualsiasi cosa. Il so­le sta tramontando.»«Com'è lì, Cecy.»«Si odono i sibili delle salse» ella disse piano, come par­lando in chiesa. «Bolle grigie di vapore fanno capolino nei fanghi come se degli uomini calvi si levassero nello sciroppo denso, con la testa per prima, laggiù nei canali ribollenti. Le teste grigie si lacerano come un tessuto di gomma, si afflo­sciano con rumori simili a quelli prodotti dal moto di labbra bagnate, e dal tessuto strappato sfuggono piumacchi leggeri di vapore. C'è continuamente un'odore profondo di zolfo che brucia. Il dinosauro bolle qui da dieci milioni di anni.»«Non ha ancora finito, Cecy.»«Sì, ha finito, completamente.» Le labbra calme da son-   j nambula di Cecy sorrisero lievemente. Le parole cadevano   ! lente dalla bocca che le formava. «Sono dentro il cranio di questa donna e guardo; vedo questo mare immoto, così tran-   < quillo da far paura. Aspetto seduta sotto la veranda il ritorno   ! di mio marito. Ogni tanto un pesce salta fuori e ricade, deli­neato dal lume delle stelle. La valle, il mare morto, le rare auto, la veranda di legno, la mia seggiola a dondolo, io, il silenzio.»«E ora, Cecy.»«Mi alzo dalla seggiola» ella disse.«Sì?»«Vado via dalla veranda, verso le salse. In alto volano ae­rei, come uccelli primordiali. Poi silenzio, tanto silenzio.»«Quanto tempo starai dentro di lei, Cecy?»«Finché non avrò ascoltato, visto, sentito abbastanza: fin­ché non avrò in qualche modo cambiato la sua vita. Mi al­lontano dalla veranda, lungo i tavolati. Il mio piede colpisce le assi di legno stancamente, lentamente.»«E adesso?»«Adesso i vapori di zolfo mi circondano. Guardo le bolle che si spaccano e si levigano. Un uccello sfreccia con uno   ] strido accanto alla mia tempia. Improvvisamente sono nel-  \ l'uccello e volo via! E nel volare, dentro i miei nuovi occhiet-   ì ti come perline di vetro, vedo sotto di me una donna, su una passerella di tavole, che fa uno due tre passi avanti verso i   i fanghi delle salse. Odo un rumore come di un macigno tuffa-   j to nelle profondità fuse. Continuo a volare, torno indietro   ] con un'accostata d'ala. Vedo una mano bianca simile a un ra-  i gno, che si contorce e scompare nel grigio stagno di lava. La j lava si richiude ermeticamente. Ora volo a casa, presto, pre­sto, presto!»Qualcosa picchiò forte contro la finestra, Timothy sussultò.Cecy spalancò gli occhi, lucenti, brillanti, felici, esultanti.«Eccomi a casa!» disse.Dopo un silenzio, Timothy si azzardò a dire: «Il Raduno è in corso. Sono venuti tutti».«Allora, perché sei qua di sopra?» Gli prese la mano. «Be', domanda.» Sorrise con arguzia. «Domanda quel che sei ve­nuto a domandare.»«Non sono venuto a domandare nulla» egli disse. «Be', quasi niente. E... Oh, Cecy!» Gli uscì tutto in un flusso rapi­do. «Voglio fare qualcosa, alla festa, che li induca a guardar­mi, qualcosa che mi faccia valere quanto loro, qualcosa che mi faccia partecipare ed essere dei loro; ma non c'è nulla ch'io possa fare, e mi fa un'impressione strana, e, be', ho pensato che forse tu...»«Forse» ella disse, chiudendo gli occhi e sorridendo inter­namente. «Sta su ben dritto. Dritto e molto fermo.» Egli ob­bedì. «Adesso, chiudi gli occhi e cancella il tuo pensiero.»Egli stette dritto dritto senza pensare a nulla, o almeno credendo di non pensare a nulla.Ella sospirò. «Andiamo abbasso, adesso, Timothy?» Come una mano in un guanto, Cecy era dentro di lui.«Guardate tutti!» Timothy alzava il calice di liquido rosso e caldo. Lo alzava così da far voltare tutti quanti a guardarlo. Zie, zii, cugini, fratelli, sorelle!Lo tracannò d'un fiato.Tese una mano verso sua sorella Laura. Ne tenne fermo e imprigionato lo sguardo, sussurrando contemporaneamente con una voce insinuante che la costringeva a rimanere muta e impietrita. Si sentiva alto come gli alberi, nell'andare verso di lei. La festa aveva rallentato il proprio ritmo e, da ogni la­to, attendeva, osservando. Visi si affacciavano a sbirciare da tutte le stanze. Non ridevano affatto. La mamma aveva un volto attonito. Il babbo guardava, sbalordito ma soddisfatto e sentendosi più orgoglioso di momento in momento.Egli morse Laura, dolcemente, sopra la vena iugulare. Le fiammelle delle candele ondeggiavano come ubriache. I parenti guardavano da tutte le porte. Egli si fece saltare in bocca dei funghi velenosi, li in­goiò, poi si mise a girare sbattendo le braccia contro i fian­chi. «Guarda, zio Einar! So finalmente volare!» Le sue mani continuavano a sbattere, i suoi piedi pompavano su e giù, i volti scorrevano via in un lampo.Svolazzando in cima alle scale, egli udì il grido di sua madre: «Timothy, fermati!» giù giù in basso. «Ehi!» gridò Timothy e dall'alto del pozzo delle scale saltò, percuotendo l'aria.A metà della discesa, le ali che credeva di possedere si dis-solsero. Egli urlò. Zio Einar lo afferrò al volo.Timothy si dimenava, sbiancato, nelle braccia che l'aveva­no ricevuto. Una voce, non invitata, uscì dalle sue labbra. «Qui parla Cecy! Qui parla Cecy! Venite tutti su a trovarmi, prima camera a sinistra!» Seguito da un trillo acuto di risa che Timothy cercò d'interrompere con la lingua.Tutti ridevano. Einar lo posò a terra. Correndo attraverso il buio incalzante man mano che i parenti affluivano di so­pra verso la camera di Cecy per congratularsi con lei, Ti­mothy aprì violentemente la porta d'ingresso.«Cecy, ti odio, ti odio!»Accanto all'albero di sicomoro, nell'ombra profonda, Ti­mothy risputò fuori il pranzo, singhiozzò amaramente e si rotolò in un mucchio di foglie d'autunno. Poi giacque, im­mobile. Dal taschino del giubbetto, uscendo dalla scatoletta di fiammiferi che usava come ricovero, il ragno strisciò avanti. Camminò lungo il braccio di Timothy. Andò in esplo­razione su per il collo fino all'orecchio, e vi entrò per fargli il solletico. Timothy scosse la testa: «No, Ragno, no».Il tocco leggero come una piuma di un'antenna che inve­stigava il timpano fece rabbrividire Timothy. «No, Ragno!» Singhiozzava un po' meno.Il ragno si spostò giù lungo la guancia, andò a mettersi sotto il naso del ragazzo, guardò dentro le narici quasi per cercare il cervello, poi si arrampicò morbidamente andando a porsi sul dorso del naso, dove si accovacciò a sbirciare Timothy con i suoi occhi verdi come gemme, così che alla fine Timothy si riempì di un ridicolo riso. «Vattene, Ragno!»Timothy si levò a sedere, facendo frusciare le foglie. La terra era molto illuminata di luna. Udiva venire una fioca ba­raonda dalla casa, in cui si giocava a "Specchio, specchio". I celebranti gridavano, con voce un po' attutita, nel cercare d'identificare tra loro quelli il cui riflesso non appariva né mai era apparso in uno specchio.«Timothy.» Le ali di zio Einar si allargarono, si contrasse­ro e rientrarono con un suono di timpani. Timothy si sentì strappare dal suolo come un fiorellino di digitale, e mettere sulla spalla di zio Einar. «Non te la prendere, nipote Ti­mothy. A ciascuno il suo, ciascuno a suo modo. Per te le cose sono di gran lunga migliori. Piene di possibilità. Per noi il mondo è morto. L'abbiamo visto tanto, credimi. La vita è mi­gliore per coloro che ne hanno meno da vivere. Vale di più per grammo, Timothy, ricordatelo.Per il resto delle nere ore piccole dopo mezzanotte, zio Ei­nar lo condusse in giro per la casa di stanza in stanza in­trufolandosi e cantando. Un'orda di nuovi arrivi riaccese l'al­legria. C'era la bis-bis-bis e mille altre volte bis-bisnonna, drappeggiata nei paludamenti funerari egizi. Non diceva pa­rola: giaceva, dritta e rigida come un'asse per stirare bruciac­chiata, contro la parete, e le sue occhiaie facevano da coppa a un lontano, saggio, silenzioso luccichio. Alle quattro del mattino, ora di colazione, la mille volte e rotti bisnonna fu seduta, rigida, a capo della più lunga tavolata.I numerosi cuginetti facevano baldoria alla patera di cri­stallo del punch. I loro occhi lucenti a nocciolo d'oliva, i loro visi conici e diabolici sotto i ricci bronzei aleggiavano sulla tavola delle bevande, e i loro corpi duro-soffici, da ragazzo-ragazza, lottavano fra loro, con il progredire della piacevole e solenne sbronza. Il vento soffiava più alto, le stelle ardeva­no con fiammeggiante intensità, il chiasso raddoppiava, le danze acceleravano, il bere diventava più deciso.
Per Timothy c'erano mille cose da udire e da vedere. Le molte tene­bre s'intorbidivano, ribollivano, le molte facce passavano e ripassavano...«Ascoltate!»L'adunanza trattenne il fiato. Lontano lontano l'orologio del palazzo comunale rintoccava le sei. La festa era sul fini­re. A tempo, sul ritmo dei rintocchi, le loro cento voci si mi­sero a cantare canzoni vecchie di quattrocento anni, canzoni che Timothy non poteva conoscere. Con le braccia intreccia­te, in lento girotondo, cantavano, e da qualche parte nelle fredde lontananze del mattino l'orologio della città terminò i suoi rintocchi e tacque.Cantava anche Timothy. Non conosceva le parole né l'aria, eppure gli venivano piene, alte, buone. Ed egli guardava la porta chiusa in cima alle scale.«Grazie, Cecy» bisbigliò. «Sei perdonata. Grazie.»Poi si lasciò andare tranquillamente, permettendo alle pa­role d'uscire liberamente, con la voce di Cecy, dalle sue labbra.Si scambiavano addii, in un gran brusio. La madre e il pa­dre stavano in piedi sulla soglia, per stringere la mano e dare un bacio, a turno, a ciascun parente in partenza. Oltre la porta aperta il cielo si tingeva dei colori dell'oriente. Entrava un vento freddo. E Timothy si sentì prendere e collocare in un corpo dopo l'altro, sentì che Cecy lo ficcava nella testa di zio Fry, cosicché egli guardava da un volto rincartapecorito, poi balzava in un turbine di foglie, alto sopra la casa e sopra le colline che si destavano...Poi, muovendosi a lunghi passi su un sentiero, si sentì gli occhi rossi e brucianti, il pelo brinato dal mattino, mentre all'interno del cugino William ansava attraverso una depres­sione e scompariva...Come una pietruzza nella bocca di zio Einar, Timothy volò in un tuono palmato che riempiva il cielo. Poi, fu di ri­torno, e per sempre, nel proprio corpo.Nell'alba avanzante, quei pochi rimasti per ultimi si ab­bracciavano piangendo e pensando che il mondo stava diventando un luogo meno adatto a loro. In altri tempi s'incon­travano ogni anno, ma ora passavano decenni senza il rito di riconciliazione. Qualcuno gridò: «Ricordate, ci ritroviamo a Salem nel 1970!».Salem. La mente confusa di Timothy rimuginava su que­ste parole. Salem, 1970. Ci sarebbero stati lo zio Fry, la mille-voltebisnonna nelle sue bende funerarie avvizzite, ci sareb­bero stati la mamma, il babbo, Ellen, Laura, Cecy e tutti quanti. Ma, lui, ci sarebbe stato? Poteva essere certo di vive­re fino a quella data?In un'ultima raffica se ne andarono tutti, cormorani, mammiferi svolazzanti, foglie appassite, rumori lamentosi e conglomerati, notti fonde, pazzie e sogni.La madre chiuse la porta. Laura diede di piglio a una sco­pa. «No» disse la madre. «Faremo pulizia stanotte. Adesso abbiamo bisogno di dormire.» E la Famiglia svanì in cantina e di sopra. Timothy, a testa bassa, attraversava l'atrio disse­minato di rifiuti. Nel passare davanti a uno specchio da fe­sta, egli vi scorse la pallida mortalità del suo viso, freddo e tremante.«Timothy» disse la mamma.Si avvicinò e gli sfiorò il viso con la mano. «Figlio» gli dis­se «ti amiamo. Ricordatelo. Tutti ti amiamo. Nonostante che tu sia diverso, nonostante che tu ci lascerai un giorno.» Lo baciò sulla guancia. «Se e quando morirai, le tue ossa ripose­ranno indisturbate, ci penseremo noi. Riposerai comoda­mente per sempre, e ogni vigilia d'Ognissanti verrò a trovarti e a rimboccarti affinché tu sia più sicuro.»La casa era silenziosa. Lontano lontano il vento passava sopra una collina con il suo ultimo carico di pipistrelli oscu­ri, echeggiami, squittenti.Timothy salì gli scalini a uno a uno, piangendo fra sé per tutta la strada.



Per saperne di più:
Copertina libro: Il paese d’ottobre”.  Ray Bradbury Ray Bradbury