Un piccolo albino

dall'Italia, Francesco Puzzo

Quando nel 1999 ebbi l’opportunità di andare in missione in Africa, non me lo feci ripetere due volte: era molto tempo che lo desideravo!Nell'ottocento i santi sociali torinesi fondarono diversi ordini religiosi, con missionari sparsi in tutto il mondo: i più conosciuti sono i Salesiani, i Missionari della Consolata ed i Cottolenghini. Al ritorno dalle missioni  spesso i religiosi necessitano di controlli clinici e frequentemente sono malati, vengono perciò ricoverati in un reparto riservato   ai religiosi nell’ospedale della “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, meglio conosciuta come Cottolengo, dal nome del Santo fondatore. Conosco bene questo reparto per avervi svolto per molti anni attività di volontariato, così durante le mie presenze ho avuto modo di ascoltare i racconti e i ricordi di molti religiosi che fecero nascere in me non solo la volontà di conoscere l’Africa ma anche e soprattutto il desiderio di rendermi utile collaborando in qualche missione. Molti di coloro che provenivano dall’Africa, vedendo che sono albino, mi raccontavano che l’ albinismo era  là più diffuso che in Italia e che gli albini erano laggiù circondati da un alone di magia  ed ammantati di mistero, spesso emarginati. Anche gli animali albini, dal mitico elefante bianco ai leoni bianchi, sono considerati allo stesso modo e cacciati per usare i loro corpi in pratiche divinatorie o di guarigione. Dove sono stato nel 1999 non ho avuto riscontro a queste affermazioni, se non in maniera marginale.Partii finalmente per la città di Pemba, nella regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, dove rimasi per circa tre mesi.Superai le  difficoltà quotidiane, dall’ alimentazione all’igiene personale, dal caldo all’approvvigionamento dell’acqua; tenendo a mente i racconti  e i consigli dei missionari, non ebbi in effetti alcun  problema di salute anzi ebbi la conferma di ben sopportare il caldo, esperienza che avevo già avuto quando lavoravo in Sicilia.Essendo un albino oculo-cutaneo non feci altro che aumentare le precauzioni che normalmente adotto qui nel nord Italia, dove però le condizione di irraggiamento solare e conseguentemente di luminosità sono decisamente più sopportabili. Rifacendomi anche alla passata esperienza siciliana mi ero dotato di occhiali con lenti colorate e con protezioni laterali scure, montatura scura e massiccia per creare la maggior superficie in ombra. Usavo cappelli con visiere scure e aspettavo la sera, per poter finalmente aprire le palpebre e liberarle dall’obbligo di stare semi-chiuse tutto il giorno.Dopo un po’ di tempo dall’arrivo alla missione, recandomi una domenica mattina alla messa delle sei e trenta, vidi un bimbo albino di circa 10 anni che stava seduto a terra davanti ad una capanna: era sveglio da poco e stropicciandosi gli occhi si scaldava ai primi raggi del sole. Non avevo mai visto un negro albino: lo guardai curiosamente, probabilmente come per una vita ero stato guardato io prima che  l’età non  più giovane confondesse il colore dei miei capelli con la canizie. Constatai  che era  un bel  bimbo, perfettamente decolorato. In  quel momento mi dispiacque di essere come tanti altri abbastanza ignorante in materia, non per colpa mia, infatti avevo più volte cercato  notizie e chiesto informazioni a medici ricevendo in cambio le più svariate  e improbabili risposte. Anche  Internet, a differenza di adesso, non mi aveva certo aiutato. Da allora, fortunatamente,sono stati fatti passi enormi nella divulgazione.Lo salutai ed egli mi rispose :“bon dia tio”; comperai una lattina di aranciata e, al ritorno dalla messa, gliela portai: era felice, corse dentro la capanna da dove subito ne uscì una donna che con un grande sorriso mi ringraziò dicendomi "obrigada". Rividi spesso quel bambino ed è facile immaginare, considerate le  condizioni di indigenza, che non usasse nessun tipo di precauzione, tranne lo stare al riparo  dal sole. Chiesi alle suore Salesiane se conoscevano questo bambino e mi dissero che conoscevano non solo quel  bimbo ma anche una donna albina nella città di Pemba.Domandai di raccontarmi le loro esperienze, come educatrici, avute con  queste persone anche in altre località.  Mi risposero che questo essere diverso era vissuto come tutte le altre  menomazioni, congenite:e no, con rassegnazione , senza specifici problemi e senza purtroppo alcuna alternativa possibile. Le menomazioni congenite  sono molto frequenti dove le condizioni di vita sono così impregnate di povertà, dove la sofferenza  fisica è frutto  della stessa, dove la speranza non sembra essere possibile. Cercai  inutilmente di capire perlomeno quanto fosse frequente questo disturbo congenito ereditario visitando le scuole della città dove non vidi apparentemente altri albini. Incontrai bimbi negri biondi o addirittura con i capelli rossicci, ma non albini.Questo mio piccolo amico albino mi ha regalato  dolcezza con i suoi sorrisi, ed i suoi occhi azzurri hanno parlato con i miei. Avrei voluto procurargli  perlomeno un paio di occhiali da sole ma trovai solo occhiali da adulto. Spesso, passando vicino alla sua capanna, lo vedevo e sovente parlavo con la sua mamma che non sembrava essere preoccupata dal futuro del bimbo, come dicevo prima l’assoluta indigenza e la mancanza di risorse permettono solo di preoccuparsi per l’oggi, per il domani si vedrà. Va aggiunto  che in quel periodo la guerra civile aveva appena finito di straziare il Paese e molte famiglie si erano spostate dalle campagne alle città costiere dove si sentivano più sicure, creando delle favelas poverissime dove malaria, tubercolosi e svariate epidemie dovute alle precarie condizioni igieniche la facevano da padrone.Avendo saputo  dalle suore  Salesiane della donna albina, madre di quattro figli,decisi di mandarle un paio di occhiali, delle creme protettive  e qualche cosa d’altro che ora non ricordo. La  domenica mattina seguente, finita la messa, mi venne vicino un ragazzino , che si presentò come il figlio della signora albina, invitandomi a casa loro poiché la madre e tutta la famiglia desiderava conoscermi Mi invitò  pertanto a seguirlo, me ne stupii e dopo aver chiesto consiglio alle suore, mi incamminai seguendo  il ragazzino. Camminammo in un dedalo di vicoli sterrati delimitati da staccionate di canne sino alla casa, una capanna  fatta di canne, paglia e fango di argilla dove viveva una numerosa famiglia sostentata da un unico lavoratore che esercitava la professione di  “ irrigador” (idraulico) retribuita  dallo Stato  con 900.000 Metical mensili, pari al cambio di allora  a 70 $, uguali  a poco più di 2 $  giorno.La signora  mi accolse con una grande dignità, presentandomi a tutta la famiglia e ringraziandomi  per quanto ricevuto.  Mi raccontò di appartenere all’etnia Macombe, gruppo con tradizioni matriarcali, e di essere stata abbandonata dal padre dei suoi figli da molto tempo, era così dovuta rientrare nella casa paterna. Il padre dei suoi figli non era albino e neanche essi lo erano. Non vi era  memoria di albini nella loro famiglia. Lasciai un dono e me ne andai. Ero stato colpito da un senso di fragilità ma al tempo stesso da una grande dignità unita al senso di riconoscenza e gentilezza. Le suore Salesiane mi spiegarono poi che tanta gentilezza  era propria di tale etnia. In quel periodo ho vissuto soprattutto con i bambini , con loro ho patito la fame, con loro ci siamo abbracciati e consolati, con loro ho visto cose molto brutte, cose che un bimbo non dovrebbe vedere…Mi  sono reso conto delle gravi responsabilità del mondo così detto “civile” da cui provengo. In soli tre mesi ho capito cosa vuol dire la fame, che ti indebolisce, che ti abbruttisce, che pur di essere lenita ti fa compiere atti riprovevoli.
Bisogna riparare ai mali prodotti durante i secoli di dominio coloniale, aiutando questi popoli, incominciando dalle esigenze basilari ,come la salute e l’istruzione, adempiendole in maniera capillare, senza speculazioni culturali o politiche, facendo loro recuperare le loro identità  e  dignità concedendo loro la possibilità di camminare con tempi e modi propri. Ritengo si debba  agire, con discrezione e con il loro coinvolgimento , nell’intento di rimuovere  i frutti  perversi nati dalla coniugazione delle loro tradizioni con le civiltà dei consumi ,frutti che creano un gravissimo nocumento a popoli interi o a categorie umane ben precise come in questo periodo agli ALBINI in Tanzania.


Francesco Puzzo
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