INEDITI

Alba Viola

albero di nocciolo
"Il nocciolo ispiratore" by Melusinda


Primavera del 2009

Stavo facendo piccoli lavori in giardino, avevo raccolto una viola - profumatissima!- e, per non gettarla via, me l’ero infilata fra i capelli. Le mie cesoie seguitavano a potare i rami del nocciolo, mentre un tiepido sole di primavera incipiente mi scaldava la schiena. Ma nuvoloni neri incombevano a ovest e pensai che la tregua non sarebbe durata. D’un tratto: un capogiro fortissimo. Mi aggrappai ai rami dell’alberello mentre tutto diventava nero.
Poi, un barlume di coscienza, come nel dormiveglia… ma cosa mi combini, Strega, ti ho fatto troppo male? (Strega è lei, il nocciolo). Molto lentamente iniziarono a tornarmi i sensi. Prima il tatto, e avvertii rami e foglie, una leggera brezza sul viso… ma la Strega ha i rami molto più sottili e deve ancora mettere le foglie… Poi l’udito, e sentii cantare uccelli, stormir di fronde, voci femminili… voci femminili? Mentre il mio naso analizzava un troppo intenso profumo di bosco, mi decisi ad aprire gli occhi. E per poco non mi viene un colpo. Stavo distesa sopra un enorme ramo d’albero, un po’ scanalato in mezzo e quindi anche molto comodo, con la testa appoggiata al tronco ed altri rami più sottili come ad abbracciarmi. Ma guarda tu, chi mi ha fatto questo bello scherzo almeno si è preoccupato che non cadessi! Scherzo? E chi mai e come, soprattutto, avrebbe potuto farmi un tale scherzo? Cominciai a tentare di muovermi e anche di capire a che distanza dal suolo mi trovassi.
Ma nell’intrico vegetale non capivo proprio nulla, così, goffamente, mi calai di ramo in ramo, non senza una certa strizza.
Arrivata faticosamente e dopo un tempo che mi parve eterno, a una grossa biforcazione, dove veramente non sapevo più dove appoggiare il piede, sentii le voci femminili avvicinarsi e guardai giù per fare il punto della situazione.
Ma valutare le distanze non è mai stato il mio forte, l’unica cosa che accertai fu che ero “ospite” di una quercia, o un altro parente di quella famiglia. Mi feci forza e provai a girare intorno al tronco per trovare altri rami più bassi.
“Ehi, dai, sappiamo che sei lassù, forza, scendi, non aver paura, è tanto che ti aspettiamo!”. Ah, beh, meno male che qualcuno sa che sono qui (dove magari vorrei saperlo anch’io) e mi stava pure aspettando! Mentre continuavo a tentare di non schiantarmi a terra, vidi braccia levarsi verso di me e con sollievo capii di non essere più tanto in alto.
“Su, per di qua, metti il piede qui che ti aiuto io”. Un paio di mani robuste mi afferrarono una caviglia e subito dopo aver temuto il peggio, mi ritrovai fra le braccia di un enorme, profumato, morbido e sorridente donnone.
Io non sono né bassa né magra ma mi sentii un cucciolo.
E venimmo immediatamente circondate da un gruppo di donne festosamente schiamazzanti.
Dopo momenti di vani tentativi di comprensione e di abbozzi di risposte, alzai le mani in segno di resa e finalmente quella che mi aveva “accolto” intimò il silenzio. “Basta, non vedete che la state frastornando, poverina? Andiamo a sederci e parliamo con calma!”. Ci scostammo di pochi passi dall’albero e ci sedemmo in circolo sull’erba fresca.
“Allora, sorelle, noi abbiamo dato per scontato che lei sapesse e fosse venuta intenzionalmente, ma è evidente che non è così…
Intanto presentiamoci… come desideri essere chiamata?”.
Si era rivolta a me, ma io stavo ancora pensando a ciò che aveva appena detto… sorelle… che sapesse… venuta intenzionalmente… e non risposi subito.
“Viola”,
“Alba”,
“Alba Viola”,
molte voci sostituirono la mia e le braccia, le mani, indicavano i miei vestiti, i capelli, gli occhi.
Ed io seguendo i loro gesti mi rendevo conto di varie cose: avevo ancora la viola fra i capelli ed indossavo una tuta viola. Inoltre, naturalmente, la cosa principale: io sono albina, pertanto ho capelli bianchi e occhi viola e questa è sicuramente la mia caratteristica fisica più evidente.
Sempre la prima donna prevenne ogni risposta: “vedi, non tutte noi usiamo i nostri veri nomi e molti sono stati suggeriti dalle altre, perciò ti chiameremo come vuoi e puoi dircelo subito o pensarci su, come preferisci. Comunque io sono Artemisia, l’abbraccio di benvenuto te l’ho già dato, ma te ne do un altro volentieri”. Fra le risate entrò nel cerchio e mi si avvicinò, mentre io mi alzavo in piedi per essere avvolta da quella montagna di carne cedevole ma soda, dall’intenso profumo di erbe. Ricambiai l’abbraccio con gioia, sentendomi protetta, accolta, perfino amata!
“Artemisia, bene, tu sei una vera forza della natura!”.
Lei sorrise ammiccando con i profondi occhi scuri, come ad intendere: “tu non immagini quanto!”.
Ad una ad una anche le altre si alzarono per presentarsi.
Camilla, alta circa come me, capelli biondo-ramato, occhi blu, mi abbracciò calorosamente, con due baci sulle guance.
Margherita, piuttosto bassa, magra, capelli neri, mi arrivò da dietro e mi prese alla vita, scusandosi goffamente ma con entusiasmo: disse di essere totalmente cieca, tempestandomi il viso di baci. Replicai: “Beh, ovviamente mi dispiace per te, ma almeno c’è qualcuno che ci vede meno di me!”.
Melissa, piccola e tonda, capelli biondo-oro, occhi azzurri, mi avvolse in un morbido abbraccio dal fresco profumo di limone, scoccandomi un sonoro e un po’ umido bacione.
Laura, asciutta, quasi brusca, capelli castani e occhi pure, mi prese entrambe le mani baciandomi in fronte.
Erica, fiammanti capelli rossi, occhi verdi, mi travolse in un abbraccio danzante, cantandomi benvenuta, benvenuta, benvenuta...
Stavo per chiedere finalmente spiegazioni ma vidi arrancare verso di me un’altra donna, vistosamente zoppa, che disse di chiamarsi Silvia. Capelli castano chiaro, occhi grigi, mi tese la mano che non reggeva il bastone, salutandomi formalmente.
“Oh, finalmente questa è l’ultima, dài, dillo che lo stai pensando! Il mio nome è Malva e sono ultima solo per caso, sia chiaro!”. Capelli biondo pallido, occhi chiari, alta e robusta, mi tenne a lungo in una dolce stretta.
Finché ci giunse la voce di Artemisia: ”va bene, donne, si sta facendo tardi, dobbiamo andare e poi per oggi le emozioni possono bastare”.
In effetti il disco arancione del sole, poco sopra l’orizzonte, allungava le ombre ed infiammava i colori. I saluti divennero di commiato ed io mi sentii smarrita: “no, un momento, aspettate, penso di meritare qualche spiegazione, no? E poi voglio dirvi…” il mio nome, conclusi fra me.
Si erano già dileguate come fate dei boschi. Ma Artemisia mi si avvicinò sorridendo e mi prese la mano: “non preoccuparti, avrai tutte le spiegazioni che sarò in grado di darti, ma non qui, ti va di essere mia ospite?”. “Beh, non penserai che gradirei passare la notte su quel ramo, vero? – e indicai la quercia – Anche se devo dire che era comodo e quella è una pianta assolutamente formidabile, non ne ho mai visto una tanto immensa”. Artemisia rise: “a proposito, Lei, viene detta ‘Quercia delle Nove Sorelle…”.
Feci un piccolo conteggio mentale, fra sghignazzi e ammiccamenti affermativi della donna. Ma, pur stupefatta e incuriosita oltre ogni dire, decisi di non insistere e ci avviammo lungo il prato in declivio, tappezzato di fiori di tutti i colori. Mi accorsi che ci trovavamo su una collinetta, non molto distante dal paese, che ora si iniziava a scorgere, di case basse, per lo più di sasso. E verso una di queste si diresse Artemisia.
Mi introdusse in una vasta cucina, con pavimento in cotto, travi di legno, un massiccio tavolo e un grande camino già preparato per il fuoco, che lei con rapidi gesti fece divampare. La sera si era fatta fresca. Aleggiava nell’aria lo stesso sentore di erbe amare che emanava dalla sua persona. C’era anche una stufa a legna, non molto diversa da quella della casa della mia infanzia, sulla quale troneggiava una panciuta pentola di coccio. “Non ho granché da offrirti, ti va una zuppa e del formaggio?”, “ma certo, va benissimo. Senti, posso chiederti di che cos’è questo odore?”. “Uhm, è molto sgradevole?”, “no, assolutamente, al contrario! È intenso ma piacevolissimo e anche molte delle altre donne avevano profumo di erbe”. Si rasserenò, mettendo in tavola due grosse ciotole di zuppa fumante, una pagnotta, uno spesso tagliere con sopra il formaggio e una brocca di vino con due bicchieri. Mi sorrise e ci mettemmo a mangiare. In quel momento apparve un grosso gatto rosso dagli enormi occhi verde smeraldo, che miagolò piano ed andò a strusciarsi contro le gambe di Artemisia: ”ah, eccoti qua, Zenzero, quando compari tu? Quando si mangia, naturalmente! E gli altri due vagabondi dove sono, eh? Così almeno do la pappa a tutti e non ci sono discussioni”. Come evocati dalle sue parole, arrivarono di corsa altri due mici, uno tigrato a larghe strisce scure su fondo chiaro e uno tutto nero, lucido, occhi d’ambra. Rivolta a me, lei fece le presentazioni: “quello tigrato è Pepe e occhio che lo è anche di carattere, l’altra è Liquirizia, ma se ti va di accarezzare qualcosa di peloso ti consiglio questo patatone rosso, adora le coccole ed è dolcissimo”.
Infatti allungai la mano e il micione subito ci si infilò sotto alzando la coda e partendo con fusa sonore.
“Allora, l’odore è di artemisia, ci faccio un liquore, che dopo ti farò assaggiare, a meno che tu non faccia parte di quella tristissima razza di persone che non bevono alcolici. Ti piace la zuppa?”. Risposi che bevevo, anche troppo!, e la zuppa era veramente squisita, con cereali, legumi e verdure che non riuscivo a identificare con certezza, ma aveva un sapore ‘antico’, di roba sana, genuina, senza schifezze chimiche.
“Dunque, devi sapere che noi siamo una congrega di streghe molto antica. Alcune sono erboriste, o cuoche, per cui l’odore di spezie è naturale, o guaritrici, come Melissa, che alleva anche le api. Malva fa la levatrice, Silvia tesse magnifici tappeti, Margherita è una musicista molto richiesta, suona l’arpa e il violino. Erica e Laura sono ceramiste, quella pentola è opera loro, ma fanno cose anche molto più artistiche.” Si alzò per andare a prendere dei vasetti che mise in tavola, tutti decorati, di vari colori e fogge, molto belli, forse senza accorgersi che ero rimasta col cucchiaio a mezz’aria e per poco non mi strozzavo col boccone. Infatti proseguì tranquilla: “Il fatto è che, già molti mesi fa, ci siamo accorte che l’equilibrio fra i mondi è in serio pericolo ed essendo morta la nostra sorella più anziana, abbiamo iniziato una ricerca. Sai, se il cerchio non è completo, ha molta meno forza e questa è una questione di vita o di morte. Ma, scusa, mi stai ascoltando? Oh, lo so, magari abbiamo interferito pesantemente nella tua vita, magari hai marito e figli che si chiederanno dove sei finita, ma anche noi, sai…”.
“ Ehi, frena un attimo, non è tanto quello il problema, è che io non sono una strega, avete sbagliato persona!”.
Ora fu il suo turno di restare a bocca aperta… Mentre io prendevo in mano i vasetti ad uno ad uno ammirandone la qualità, si alzò in piedi ed iniziò a marciare avanti e indietro torcendosi le mani. Per parte mia avevo appena iniziato ad assaporare il più sublime formaggio di capra che avessi mai provato e lo stesso poteva dirsi del pane e del vino, per cui il cosmo intero poteva attendere, almeno un pochino.
“Non è possibile. Questo non è proprio possibile…”, si rimise a sedere, ricominciando a mangiare, ma con la mente altrove. Era talmente sconvolta che tentai di distrarla: “lo fanno qui in paese, questo stupendo caprino?”. “Cosa? Ah, il formaggio, lo faccio io, col latte delle mie capre e anche il pane e il resto… il vino no. Senti, ciò che hai detto non ha senso, non si può sbagliare persona in una ricerca come questa, forse l’unica spiegazione è che tu non sai di esserlo, ma di certo sei una strega. E anche dotata, perché di questo abbiamo disperatamente bisogno”.
Mi dispiaceva immensamente deluderla e sarei d’altronde stata ben felice che avesse ragione, ma… Lei proseguì: “Ascolta, domani all’alba è l’equinozio di primavera e c’è anche luna piena, una combinazione di grande potenza. Purtroppo abbiamo pochissimo tempo, non posso darti modo di ambientarti, renderti conto, chessò… superare lo choc. Ci troveremo alla Quercia e chiuderemo il cerchio, ci sarai anche tu, non dirmi di no!, si capirà subito se sei una di noi”.
Ero perplessa: perché questa donna, sicuramente di grande intelligenza e sensibilità, pretendeva che fossi per forza ciò che non ero? Sarà la disperazione, dato che io non ho la più pallida idea di questo pericolo mortale incombente, contrariamente a ciò che lei sembra credere.
Artemisia si era alzata e tornò dall’altra stanza portando una bottiglia di foggia elaborata, di vetro spesso, contenente un liquido di un intenso color giallo tendente ad verde. Ne versò due bicchierini e mentre li alzavamo mi guardò intensamente: “verrai?”. Esitai solo un istante –aroma pungente, effluvio inebriante di essenze, tonalità di verdi con sprazzi lilla- poi, cozzando il bicchiere col suo: “al successo del cerchio delle Nove Sorelle!”.
Bevemmo: Elfi e Silfidi, Gnomi ed altri esseri di cui non conosco il nome danzarono dietro ai miei occhi. Nel naso quel sentore penetrante di erbe, in bocca e nella gola il gusto indescrivibile di umor di bosco profondo. Alè, sono impazzita… nell’attimo stesso che pronunciavo quel brindisi ed assaporavo quel nettare, dubitai fortemente delle mie facoltà mentali: “senti, confessa, mi hai fatto un incantesimo, hai messo qualche droga nel cibo o è questo liquore…”. Mi inchiodò con i suoi profondi occhi scuri: “Viola, ascoltami bene: questa è una cosa che non devi dire nemmeno per scherzo! Nessuna di noi si sognerebbe mai di indurre con la magia qualcuno ad agire contro la propria volontà! La nostra è solo magia benefica, bianca o verde, raramente rossa, mai nera! Dimmi se mi credi!”.
La rassicurai che avevo solo scherzato e allora si rilassò, invitandomi a seguirla nella stanza attigua. Mi trovai in un ambiente molto più luminoso della cucina, anche se del sole restava ormai un riflesso soffuso. Le due pareti a ovest e sud erano infatti occupate da finestre e due porte-finestre; ai restanti muri erano appese erbe e fiori di ogni tipo e sul lungo tavolo al centro e sugli scaffali, libri, alambicchi, vasi, vasetti e una miriade di utensili e oggetti la cui natura mi era del tutto sconosciuta. “Accipicchia! Che spettacolo! Non so che darei per avere una stanza così per dipingere, fare ceramica, i miei pastrocchi, insomma!”. Lei rise ed aprì una delle porte-finestre. Dava su un orto botanico, o giardino dell’Eden, ai miei occhi, e si mise a descrivermi nome ed uso di ogni curatissima piantina e fiore, come se mi stesse presentando la sua famiglia. Io, pur interessata ed ammirata, forse tradii la stanchezza: “scusami, per te è stata una giornata pesante, dobbiamo alzarci prima dell’alba e io ti annoio con la botanica. Ma è la mia passione e quando comincio…”.
Mi guidò su per una breve scala di legno, mi mostrò un bagno sontuoso, con una vasca enorme, a semicerchio e, al mio stupore, raccontò: ”abbiamo acqua termale anche nelle case, in abbondanza. E viene depurata, rivitalizzata, rimessa in circolo, a seconda degli usi, mai sprecata. Anche l’energia deriva tutta dalla natura e non costa quasi nulla”.
Poi aprì la porta di una camera con due letti: “questa era di due delle mie figlie, scegli il letto che vuoi”.
“Due delle tue figlie? Perché, quanti figli hai?”, “oh, una caterva e anche nipoti! Ma sono tutti lontani, il più piccolo è su al pascolo con le capre”. “Anche le altre, immagino, avranno famiglia. Scusa se te lo chiedo, ma non hanno nulla da ridire, le famiglie, di questa vostra ‘attività’?”, “quale attività, la stregoneria? Certo che no, perché dovrebbero? Te l’ho detto che è una tradizione molto antica e anche molto rispettata. Tutti, prima o poi, hanno bisogno di noi!”. Pensai che lì evidentemente non era mai arrivata l’Inquisizione e forse neanche la medicina ufficiale. Comunque non mi reggevo proprio più in piedi e, anche se migliaia di altre domande mi ronzavano in testa e un lungo bagno caldo in acqua termale mi tentasse enormemente, diedi la buona notte ad Artemisia e mi infilai con gratitudine in uno di quei letti dalle lenzuola profumate, addormentandomi come un masso.

Qualcosa mi solleticava una guancia, pensai a un insetto ed alzai la mano per scacciarlo, ritrovandomici contro la testa di un gatto ronfante, mentre una lingua ruvida mi leccava le dita, la fronte, la punta del naso.
Melusina, che ti piglia stamattina? Ma no, la mia micia non è così affettuosa… Ridendo aprii gli occhi: “Zenzero! Certo che sei proprio espansivo tu eh? Neanche mi conosci e già ti permetti di venirmi a svegliare”. “In realtà sono stata io ad istigarlo a svegliarti, è pronta la colazione”. Artemisia se ne andò con un sorriso ed io guardai la finestra: era ancora notte. Di mala voglia mi tirai in piedi, mi vestii e scesi sbadigliando i pochi gradini verso la cucina. Il fuoco ardeva nel camino e la tavola era imbandita di ogni delizia: pane tostato, burro, marmellate in ciotoline di ceramica, miele, brocche con liquidi fumanti, altre con liquidi colorati, frutta…

“Mamma mia, chi deve mangiare, l’esercito?”. Una strana occhiata accolse la mia frase: “dobbiamo essere in forze, su, mangiamo che si fa tardi”. Non replicai, ormai avevo accettato che si compisse quella cosa di cui non sapevo nulla, forse esclusivamente per fiducia in quella donna straordinaria, o anche per curiosità e non volevo chiedermi cosa sarebbe successo in caso di fallimento né… cosa sarebbe successo in ogni caso! Facemmo onore all’ottimo cibo, anch’io che di solito al mattino non mangio quasi niente e, apprestandoci ad uscire, Artemisia mi aggiustò sulle spalle un caldo mantello di lana con cappuccio: “Fa fresco sulla collina, a quest’ora”.
Un altro ne indossò lei e ci avviammo. Una luna enorme illuminava quasi a giorno la via, Artemisia mi prese sottobraccio, pensai preoccupata per la mia scarsa vista. “Meno male che almeno tu non credi che gli albini ci vedano di notte!”. Lei rise. Il percorso mi parve più lungo dell’altra volta, forse parchè era in salita, ma ben presto avvistai l’imponente sagoma della Quercia stagliarsi contro la luce della luna. Uno spettacolo magnifico, meglio di qualsiasi dipinto romantico!

E avvertii anche movimento: alcune delle sorelle ci stavano venendo incontro: “Artemisia, eccovi finalmente!”. Seguì un conciliabolo, mentre Artemisia proseguiva verso l’albero torreggiante. Non sapendo che fare andai con lei. Camminando fece dei segni con le mani e poi le appoggiò al tronco e si mise a mormorare. Ero incerta, imbarazzata e non tentai di carpire ciò che diceva ma istintivamente, dopo un attimo la imitai, restando però in silenzio ed inviando una preghiera allo spirito della Quercia. Che mi prestasse un po’ della sua forza e della sua saggezza per affrontare la prova, pur essendo io certa di non essere in grado di superarla. Staccando le mani dall’albero vidi Artemisia che mi guardava sorridendo ed arrossii ma, al tempo stesso, notai altre donne, forse appena arrivate, che gesticolavano, danzavano, cantavano, sussurravano, abbracciavano il tronco: “ognuna di noi ha il suo saluto speciale per la Quercia delle Nove Sorelle ed è giusto così”. Mi prese alla vita e mi condusse in una piccola radura, al centro della quale stava un cerchio di pietre dove il fuoco scoppiettava allegramente.


dipinto di Paul Ranson: "streghe attorno al fuoco"
"Streghe attorno al fuoco" by Paul Ranson


Riconobbi la voce dolce di Melissa nella donna che prese la parola: “il cerchio delle Nove Sorelle è completo, questa notte di Luna Piena. All’alba, fra poco, sarà l’Equinozio di Primavera e noi ora chiudiamo il Cerchio Magico per invocare le forze della Natura e degli Spiriti Elementali, affinchè risanino la frattura che si è creata fra i mondi. Prendetevi per mano, Sorelle!”. Tutte le mani si strinsero e io per poco non gridai: una scarica elettrica mi percorse da capo a piedi, facendomi rizzare i capelli sulla nuca, ma subito mi resi conto che non era doloroso, potevo sopportarlo. Dopo poco mi parve quasi piacevole e cercai di rilassarmi. Allora cominciai a vedere come dei fulmini di vari colori saettare da una donna all’altra, pulsare, interrompersi, tendersi. Pensai alle onde radio, o agli equalizzatori degli impianti hi-fi. Chiusi gli occhi e avvertii chiaramente le singole presenze delle Sorelle:
Artemisia, al mio fianco, forte energia materna, con un nocciolo di potenziale pericolosità letale, di color blu scuro. Dopo di lei Silvia, un’energia un po’ distorta ma potente ed organizzata, dalla quale guardarsi, color turchese.
Camilla, energia calma e costante, decisamente benevola, di color verde erba.
Poi Melissa, color giallo oro, dolce, frizzante, gioiosa, senza ombra di malizia, ma pronta a colpire ogni eventuale nemico della comunità.
Ed Erica, fiamma viva, energia allo stato puro, calda e pulita, pericolosa ma senza averne coscienza, rosso vermiglione. Laura, qualcosa di pungente, impenetrabile, fortemente determinato, color porpora.
Poi Margherita, sicura e fiduciosa, diretta, vibrante ed allegra, di un luminoso magenta.
Alla mia destra Malva, presenza rassicurante, curativa, vitale, anche se con una vena di sana follia, color lilla.
E percepii anche la mia energia, per la prima volta nella vita, naturalmente viola, ancora incerta ma di indubbia forza.
E mentre i raggi di energia danzavano, si intrecciavano e fondevano, in mezzo ad essi cominciai a scorgere sagome di animali, alberi, fiumi, uomini, il tutto come in un’unica trama dal disegno complicato, che tentasse di creare un equilibrio, la migliore armonia possibile. Aprii gli occhi sentendo cadere alcune gocce di pioggia e pensai che fosse strano, vista la luna chiara, che però era scomparsa, cedendo il posto a nuvole bianche, illuminate da sotto dalla luce dell’alba, che si stava propagando ad est. La visione esteriore fu solo un lampo, perché subito tornò la presenza, intensissima, del Cerchio nella sua completezza.
Fu talmente potente l’emozione che caddi in ginocchio, insieme con tutte le Sorelle. In quell’istante il sole spuntò dall’orizzonte spennellando di viola la bassa nebbia sottile ed un arcobaleno stupefacente solcò il cielo in un arco perfetto e nitidissimo.
Mi ritrovai nel mio giardino, le mani avvinghiate ai rami del nocciolo, il viso bagnato di pioggia e davanti ai miei occhi un arcobaleno stupefacente solcava il cielo sopra i tetti delle case della città.
Era l’alba, un’alba viola.


L'intervista


opera di Man Ray: le forma di una donna ricordano la viola
"Le Violon d'Ingres" by Man Ray


Fa troppo caldo. Il trucco che ho sul viso deve essersi già mezzo sciolto. Le luci gialle posizionate davanti a me mi osservano come enormi occhi cattivi e quasi mi impediscono di vedere. Sono gli occhi di un mostro di latta programmato per non lasciarmi scappare. Forse, chissà. Ho la sensazione di essere qui da un’eternità, invece è passato appena un quarto d’ora. E’ tutto infinitamente noioso. Tutto già visto, già sentito, già raccontato. Le ferite sono state tappate perché alla gente il sangue fa paura. Le crepe sono state nascoste e io sembro una bambola di porcellana. Ma il trucco per dispetto mi si disfa sulla pelle minuto dopo minuto, e la presentatrice, che ancora fa finta di non accorgersene, ben presto mi passerà convulsa e piena di angoscia fazzoletti di carta, bianchi come gigli. Eppure una montagna di fazzoletti non basteranno a tamponare il sangue, e lei parlerà, riderà farà ancora finta di nulla nel suo vestito rosa confetto, ma inutilmente. Annegheremo tutti nel sangue, prima o poi. La voce piatta e educata, che risponde alle sue domande, non mi sembra neppure la mia. Riconosco solo la voce dentro di me; più alta, più insinuante, più intima e disperata. Come il suono di un violoncello.
-Nora, vuoi rivelarci a che età è iniziato il tuo rapporto con la musica?
Nora passa tutto il giorno a giocare con quell’affare… Ripete mia madre, affabile e distratta. Credo che le piaccia la musica. Non dovrebbe stare sempre sola, sempre in casa, sempre nella penombra. Andiamo pure, la troveremo al nostro ritorno dove l’abbiamo lasciata, stanne certo.
-Avevo cinque anni, ancora non andavo a scuola.
-Nella tua famiglia ci sono altri musicisti?
Proprio non si capisce da chi abbia ereditato un simile dono (dono?). Buffa bambina aliena. Strana, strana anche in questo. Quell’affare è troppo grande per lei, finirà per storcersi la schiena. Devo proprio comprarle qualcosa di più adatto. Ma cosa?
-No, io sono l’unica.
-E come mai proprio il violoncello, uno strumento, dopotutto, meno comune per i bambini rispetto ad altri, come il pianoforte o il violino?
Una domenica di pioggia. La porta della mia stanza è socchiusa; fa già quasi buio, me ne sto distesa sul letto ad ascoltare le gocce che battono sul tetto come i becchi di minuscoli uccelli. A un tratto qualcuno entra piano, senza fare rumore. Capisco che si tratta di Emilio dall’odore di sigaretta e di acqua di colonia. D’altra parte, chi altro potrebbe essere? I miei genitori, le mie sorelle sono tutti di là, nel soggiorno, insieme a decine di invitati. Mangiano, bevono, discutono. Non può essere che lui. Altri angeli, in giro, non ce ne sono: si potrebbe cercare per giorni e non se ne troverebbero. Emilio accende la luce. Ha in mano un grande pacchetto di cui non mi importa niente. Anzi, preferirei che non ci fosse perché è qualcosa tra di noi. Mi piacerebbe che fossimo soli. Ma per nessun motivo al mondo vorrei fargli dispiacere, così gli butto le braccia al collo e subito dopo, ridendo, strappo il nastro bianco e la carta dorata. Trovo una scatola di legno che racchiude a sua volta un oggetto strano, quasi più alto di me. Magico, senza ombra di dubbio.
-Un giorno Emilio, un amico di mio padre che era molto affezionato a me, mi regalò il suo violoncello. Capii subito che non si trattava di un giocattolo, ma di qualcosa di speciale. Ne fui affascinata e decisi di imparare a suonarlo.

-Fu quest’uomo a insegnarti a suonare?
Ogni singolo giorno, ogni singola ora, ogni singolo minuto passati a aspettare il sabato pomeriggio. Emilio mi ascolta suonare e ogni tanto accarezza appena i miei capelli del colore della neve. E’ una mano tesa verso la mia solitudine. Solitudine senza dolore, senza emozioni, senza domande. Le domande verranno più tardi. “Sono belli i tuoi capelli, Nora” – mi dice. Ma io non gli credo, perché a scuola, per colpa dei miei capelli, mi chiamano la vecchia bambina, e io la mia vecchiaia precoce la sento rimbombare come un’eco nel vuoto che ho dentro, dove spuntano solo piante secche e fiori appassiti.
-Sì, Emilio fu il mio primo maestro. Mi ha dato lezione per un paio d’anni, veniva a casa nostra quasi tutti i sabati pomeriggio. Prendeva il tè con i miei genitori poi saliva in camera mia e ci esercitavamo.
-Quand’ è che tu e i tuoi genitori avete deciso di rivolgervi a una scuola di musica? Immagino che questo Emilio abbia potuto condurti solo fino ad un certo punto.
Aspetto, aspetto invano. Ripenso a Emilio tutti i giorni, tutte le notti; mi rompo la testa. Cominciano le emozioni e le domande. Troppe. Mi tornano in mente la sua espressione triste e la paura che a volte impastava la sua voce. Infine lo perdono.
-Sinceramente, non so dire fino a che punto avrebbe potuto portarmi Emilio. Il fatto è che un giorno se ne è andato. E’ sparito, si è volatilizzato nel nulla.
-Allora a chi vi siete rivolti?
Siamo io e il violoncello, e è come essere ancora con Emilio. Nessuno mi accarezza più i capelli ma non ha importanza. I miei genitori mi ripetono distrattamente di passare più tempo all’aria aperta. Mi vestono di tutto punto quando vengono a casa i clienti di papà o le amiche della mamma. Per il resto, mi lasciano in pace. Anna e Carlotta, le mie sorelle più grandi, appartengono a un altro mondo, che non si incontra mai con il mio. Ma la mattina devo andare a scuola, e a scuola i compagni ridono di me e gli adulti mi trattano con finta compassione e distacco. Una mattina, non so più per quale motivo, entro in un’aula dove ci sono dei bambini e degli insegnanti. Appena apro la porta, uno scroscio di risate mi investe come un treno che mi fa a pezzi. E’ una bella giornata, la stanza è inondata di luce e io, abbagliata, non vedo niente. Immagino le facce, i denti, le bocche da cui provengono quelle risate. Non mi chiedo perché stanno ridendo. Lo so già, l’ho sempre saputo anche se nessuno gli ha mai dato un nome. Gli adulti non dicono niente. Non vedo neppure loro, so che ci sono ma non li vedo e anche di loro devo immaginare l’espressione impassibile, solo appena alterata da una smorfia di pietà. Ci sono state altre mattine così, altre ce ne saranno. Ma a casa, ad aspettarmi, c’è l’anima di Emilio imprigionata nel violoncello, e come per incanto tutto torna a posto.
-Sul momento miei genitori non si rivolsero a nessuno. Non si erano resi conto che per me il violoncello era una cosa seria. Credevano che si trattasse solo di un gioco, di una stramberia di Emilio che in poco tempo sarebbe sparita dalla nostra casa come era sparito lui. Io però ho continuato ad esercitarmi da sola, tutti i giorni.
-Ma alla fine ti avranno pur fatto prendere lezione, non vorrai dirci che sei un’autodidatta!
Gli anni scivolano via uno dopo l’altro quasi silenziosi, accompagnati solo dal suono roco e malinconico del mio strumento che stringo tra le gambe come un amante. Ogni tanto qualcuno mi chiama, ma resta lontano.
-No, niente affatto. Mio padre, quando si è rese che per me la musica era davvero importante, cercò un’insegnante qualificata. Poi, all’età di quindici anni, mi hanno iscritta al conservatorio, e i miei studi li ho proseguiti lì. Ma il più ritengo di averlo fatto da sola: sono state le interminabili ore passate nella mia stanza, ad esercitarmi, che mi hanno permesso di fare il salto.
-D’accordo. Però devi raccontarci che fine ha fatto Emilio.
Una telefonata, di notte, molto tardi. Ancora la stessa voce, bassa, inconfondibile. I debiti mi erano entrati addosso come spine. Giocavo ogni notte, e ogni notte perdevo. Ho bruciato tutto. Ho bruciato anche te. Potrei dirti il contrario, ma mentirei. Da quando sono arrivato quaggiù, non ti ho mai pensata, neppure una volta. Buffo vero? L’avresti mai immaginato? Ma l’altro giorno ti ho vista in televisione. Mi ha fatto uno stranio effetto trovarti cresciuta: una parte di me era certa che saresti rimasta bambina per sempre. Sentendoti suonare ho pianto, così ho deciso di scriverti. Ma tu non cercarmi. E tutto qui, non c’è altro. La tua stanza nella penombra, un violoncello troppo grande per una bambina di soli cinque anni, i tuoi bellissimi capelli bianchi di cui ti vergognavi, e che ti accarezzavo facendoti arrossire. E’ questo tutto quello che siamo stati. Non c’è altro, credimi.
-Emilio mi ha telefonato qualche mese fa spiegandomi che era dovuto partire all’improvviso per un affare importante, di cui all’epoca non poteva parlare con nessuno. Adesso vive in Brasile, è molto ricco. Mi ha confessato di non aver mai smesso di pensare a me, e di aver seguito passo passo la mia carriera di violoncellista.
-Nora, cambiando argomento, vorresti parlarci del tuo primo amore?
Giorgio, perdutamente innamorato di me, mi aspetta all’uscita del conservatorio con un mazzo di fiori. Mi vuole parlare, gli trema la voce. Carlo cammina accanto a me nei pomeriggi d’autunno e mi racconta del suo progetto di diventare dottore o veterinario. Daniele mi ascolta suonare silenzioso, di nascosto, credendo che io non me ne accorga. Claudio mi chiede di sposarlo in un caldissimo pomeriggio d’agosto, al mare, davanti a un enorme gelato di frutta, quasi all’ora del tramonto. Ma io ho in testa solo Emilio. Emilio, e il nostro violoncello.
-Ve ne parlerei volentieri, ma credo di non averlo ancora trovato. Ho avuto delle storie, ma ripensandoci a posteriori, non userei la parola amore.
-Ti faccio una domanda forse un po’ personale. Come tu stessa hai talvolta ricordato, tu hai dei problemi di vista legati a una malattia genetica… Ti andrebbe di parlarne, e magari di spiegare se questo ha reso la tua carriera più faticosa oppure no?
La ragazzina albina che studia violoncello. Coraggiosa, senza dubbio. La ragazzina albina non vede bene. Pare che abbia difficoltà a leggere le note. Sorprendente. Una memoria sorprendente per la musica. Non legge, ricorda. Sorprendente. Coraggiosa. Non arriverà lontano, ma è coraggiosa. Non avrai paura della ragazzina albina spero. No, certo. Lei non può… Eppure…
-Non è sempre stato facile. Ma in effetti preferirei non parlarne. Scusami.
-Nessun problema! Dicci piuttosto quando sarà il tuo prossimo concerto.
-Tra un mese esatto, a New York
-Grazie Nora, in bocca al lupo. Un applauso per la bellissima, per la bravissima Nora, violoncellista romana di fama mondiale.
Il trucco ormai deve essersi sciolto del tutto. Il sangue esce dalle ferite. Presto annegheremo tutti. Il tuo vestito rosa confetto non ti servirà a restare a galla, e nemmeno questi stupidi applausi. Annegheremo tutti.





Indice racconti




Verranno raccolti in questa sezione racconti inediti sul vissuto della diversità:
disagi e risorse, orrore e splendore.
Si tratta del seguito dell'antologia "Perle Rare",
perche dalla lettura  degli autori citati, può nascere
il desiderio di una propria personale elaborazione.
Chi volesse provarci, può inviare il suo racconto ad Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.




L'intervista di Nora Gatti

Alba viola di Cinzia Cimatti

in un villaggio d'Africa di Rosa Pellegrino

L'albino e il tumuto di Adrian Bravi

Racconto senza chiaro di luna di Serena Tubertini

In un villaggio africano

 
aula scolastica: un bimbo africano albino

"E' bello impararare" 
(image by Albinos in Africa Killed for their organs - tonksred300 -)



In un piccolo villaggio d’Africa.
Il bianco e il nero. La differenza.
Il bianco,  che stona con  il nero.
Il bianco, che è  esclusione istintiva dal gioco e dal piacere di imparare.
Il bianco, la differenza che non si conosce.
La differenza, che l’ignoranza traduce in discriminazione.

In un piccolo villaggio d’Africa, uno tra tanti
Non importa il nome perché è uno tra tanti.
E’ un piccolo villaggio d’Africa.
E’ uno tra tanti, reale, non di fantasia.

Di buon mattino, ogni giorno, in un piccolo villaggio d’Africa, bambine e bambini si incamminano verso la scuola, chiudendo nel pugno di una mano l’elastico che  raccoglie e lega un quaderno a righe e un quaderno a quadretti.

Di buon mattino, ogni giorno, in un piccolo villaggio d’Africa, anche  Adu, si incammina verso la scuola.

Cammino, tenendomi ad una certa distanza dagli altri, come se stessi tra me e me, pensieroso.
Ma i miei occhi, sottecchi, osservano,
le mie orecchie, indisturbate, odono.

La sua immaginazione inizia a lavorare su ciò che vede e ciò che ode.

Le risate e i gioiosi gesti mi fanno ridere e gioire, proprio come se stessi in mezzo a loro. Rido e gioisco con loro.
Saltellano. E io saltello con loro, speranzoso.

Ad un certo punto, iniziano a parlare di scuola.

<<Hai studiato?>>
<< Sì, certo!>>
<< Bene allora ti interrogo, come fa la maestra. Cos’è un fiume? Cos’è un lago? Cos’è un mare?>>

Io ascolto e imparo. E’ bello imparare!

<<Hai fatto il tema, che ci ha assegnato la maestra?>>
<< Sì, ho scritto due pagine di quaderno!>>

Io non ho fatto il tema. Le pagine del mio quaderno a righe sono ancora tutte bianche.

Eccoci davanti alla scuola.

Timoroso, affretto il passo per accorciare le distanze.
Iniziano i canti e le danze, a ritmo di tamburo.
Mi faccio coraggio, mi infilo in mezzo a loro, per cantare e danzare con loro.
Ma vengo respinto.
Ci  riprovo. Ma c’è sempre qualcuno che mi spinge via.

Festosi entrano, per imparare cose nuove.

Provo ad entrare anch’io, ma vengo  allontanato.
Allora, torno indietro, verso casa, stringendo nel pugno della mia mano l’elastico che raccoglie e lega i quaderni di scuola.
Ci riproverò domani!
Oggi, mi hanno solo fatto un brutto scherzo.
Domani mi faranno entrare, perché io voglio imparare.

Di buon mattino, ogni giorno, per molti giorni a seguire, in un piccolo villaggio d’Africa,
Adu si incammina verso la scuola, speranzoso.
Ma ogni giorno, camminando lentamente, con la testa bassa e le orecchie tese a sentire ciò che non ode mai:
<< Adu, vieni , abbiamo scherzato!>>,
ritorna a casa.

Le pagine del suo quaderno sono ancora bianche.
Adu non sa scrivere. Adu non sa leggere.
Sa solo che cos’è un lago, che cos’è un mare, che cos’è un fiume…sa solo le cose sentite, camminando verso la scuola.
Non sa neppure com’è fatta una scuola! Nessuno lo ha fatto mai entrare, in una scuola.

Ora, ormai ventenne, è seduto  lì, ai margini di una strada, con il palmo di una mano teso verso l’alto e la testa china.
Le pagine del suo quaderno a righe sono sempre rimaste bianche, come la sua pelle.
Adu è bianco.
Adu è albino.

L'albino e il tumuto


Le mie zie erano tonde e belle. Profumavano di manioca e quando camminavano facevano tintinnare le loro collane sopra i petti, grandi come le montagne del Kisantu. A me volevano bene le zie e anche io volevo bene a loro. Non mi costringevano a guardare la luce del sole e potevo restare al chiuso nella capanna senza ricevere nessun rimprovero. Con i miei zii era diverso. Alcuni di loro, avevo capito dai discorsi assembleari, davano ragione ai wakintu nel considerarmi un capriccio del tumuto. Altri, invece, dicevano che ero venuto al mondo così e basta.
I wakintu erano i nostri più accaniti nemici e spesso i miei cugini, insieme ai miei zii e al resto del villaggio, andavano da loro a prendersi a bastonate. Poi tornavano tutti rotti. Altre volte erano loro a venire da noi. Così di anno in anno. Con i wakintu avevamo in comune l’adorazione del tumuto. Tutte le cose dipendevano dalla benevolenza del tumuto. Se un serpente, per esempio, mordeva il polpastrello a qualcuno era perché glielo aveva ordinato il tumuto. Mia madre era stata punita dal tumuto, dicevano le zie, ed era morta per quello. Non so perché l’abbia punita, ma l’ha punita e adesso non c’è più. In un angolo della mia capanna c’era un tumuto di legno, con una testa allungata a tre apici e una scimmia col becco sulle sue ginocchia. Io non avevo mai visto dal vero una scimmia col becco, ma i miei cugini sì, dicevano che era più buona di quella con i denti.
A me piaceva il tumuto, anche se aveva punito mia madre. Era l’unica compagnia che avevo durante il giorno, quando i miei cugini andavano a caccia o giocavano a corda nel villaggio. A volte quando lo guardavo al buio mi chiedevo perché aveva mandato quell’insetto micidiale a conficcarmi il suo pungiglione per iniettarmi dentro tutto quel veleno che mi aveva tinto di bianco. Se non ci fosse stato nessun pungiglione con del veleno dentro ora mia madre mi potrebbe tenere sulle ginocchia, come il tumuto la sua scimmia. Di mio padre non so granché. Una volta una zia mi aveva detto che era stato ucciso da un animale durante una partita di caccia; un’altra zia, invece, mi aveva detto che era andato sulle montagne del Kisantu e che non era più tornato. Io non lo ho mai visto, a mio padre, e se lo ho visto, non me lo ricordo.
“Tu sei figlio del buio,” mi dicevano i miei cugini quando arrivava un temporale o c’era la secca. E quando una zia era morta strozzata da un male alla pancia, un mio cugino aveva detto che era tutta colpa mia: “Tu sei il lato nero del tumuto, per quello ti ha fatto tutto bianco e porti il buio tra di noi”. Alcuni mi sputavano addosso o mi lanciavano sassi. A me dispiaceva essere il lato nero del tumuto. Essere il lato nero del tumuto significava essere bianco con gli occhi rossi, e io invece volevo essere nero, come tutti i miei cugini. Se sei nero come i miei cugini puoi essere il lato bianco del tumuto e giocare a corda e guardare la luce del sole e farti fare del solletico sulla pianta dei piedi. A volte lo guardavo da vicino al tumuto, ma non lo toccavo mai; aveva gli occhi grandi come quelli di una civetta, mi mettevano paura gli occhi del tumuto.
Un giorno, mi ricordo, erano venuti tre wakintu a portarci un coccodrillo bianco come non si era mai visto prima. Io stavo accucciato vicino al tumuto; era entrato uno zio tutto di fretta e mi aveva presso per un braccio per portarmi fuori. La luce del sole mi aveva ferito gli occhi e non riuscivo a vedere nulla, solo sagome che si muovevano di qua e di là, ma dopo un po’, quando gli occhi mi si erano abituati, avevo notato che tutto il villaggio stava intorno a qualcosa buttata per terra e la guardavano e si dicevano: “Guarda, guarda”. Poi, quando mi ero avvicinato, avevo capito che era un coccodrillo.
“Vedi?” dicevano, “è tutto bianco come te”.
A me faceva impressione, quel coccodrillo morto per terra, lungo come una barca e con gli occhi aperti.
“Toccalo toccalo,” mi dicevano tutti, “dai, toccalo,” ma siccome io non lo toccavo, perché avevo paura di toccare quell’animale, anche se era morto, allora qualcuno mi aveva spinto e ci ero caduto sopra. Non avevo mai sentito la pelle di un coccodrillo. Era dura e faceva pensare alla crosta degli alberi. I wakintu dicevano che io avrei dovuto fare la fine del coccodrillo, altrimenti sarebbe stata la devastazione. Dicevano anche altre cose, ma io non capivo tutto, perché i wakintu quando parlavano tra di loro non si facevano capire dagli altri (gli zii dicevano che la loro lingua era stata rubata ai marabuku, che sono uccelli grossi che mangiano gli animali morti che stanno a terra). Comunque, dopo quelle parole una zia mi aveva presso per un braccio e mi aveva riportato dentro la capanna, e mentre fuori continuavano a parlare intorno al coccodrillo, io mi ero accucciato di nuovo vicino al tumuto. Lo guardavo, stava lì con i suoi occhi grossi senza dire niente.
“Non ti preoccupare, nessuno ti farà del male,” aveva detto mia zia, “è tutta colpa di quell’insetto che ti ha punto quando sei nato”.
“Anche al coccodrillo lo ha punto quell’insetto?” avevo chiesto.
“Sì, anche al coccodrillo,” aveva risposto lei.
Io non ero tanto sicuro di quella faccenda dell’insetto, ma ci credevo lo stesso. Del resto era una decisione del tumuto e, in qualunque modo lui avesse deciso di farmi bianco come il coccodrillo, la decisione era da accettarla. Anche la zia si era seduta vicino al tumuto e mentre lo guardava e cantava a bassa voce con le mani avanti come se volesse strozzarlo, una mosca nera gli si era posata sulla fronte. Lei l’aveva allontanata diverse volte e quella tornava sempre, nello stesso punto. Alla fine l’aveva lasciata perdere e quella era rimasta a saltellare sulla sua fronte. Poi era andata via da sola. Le mosche non venivano mai da me, andavano sempre dai miei cugini o dalle mie zie. E se una mosca, per caso, mi si posava sulla mano o sulla fronte, io la lasciavo fare. “Neanche le mosche ti vogliono,” mi aveva detto un mio cugino, sempre pieno di mosche intorno agli occhi. E quando un giorno una mi si era posata sul braccio mi ero alzato e ero corso a dirlo alle mie zie, perché lo dicessero ai miei cugini, ma appena mi ero mosso la mosca era volata via e non era più tornata.
“Zia,” avevo chiesto a mia zia, “ci sono le mosche bianche?”
“No, non ci sono”.
“E se per caso c’è una mosca bianca, le altre cosa fanno, l’ammazzano?”
“Non lo so”.
Le zie non sapevano mai niente di queste cose. Invece i miei cugini sapevano tutto quello che c’era da sapere. Qualunque cosa. Tu chiedevi e loro rispondevano, ma io non chiedevo niente a loro, perché dicevano sempre le cose brutte. Avevo chiesto solo la volta del coccodrillo morto, perché a un certo punto era scomparso e io ero in pensiero. Non mi avevano risposto, avevano detto solo che era dei wakintu e che sapevano loro che fine gli avevano fatto fare.
“Forse lo hanno restituito al fiume,” avevo detto.
“Oppure se lo sono mangiati”.
“Anche gli animali bianchi si mangiano i wakintu?”
“Certo.”
“Ma perché si diventa bianchi?”
“Non lo so,” aveva detto uno di loro. “Tu sei bianco perché tuo padre era bianco, un uomo grosso e puzzolente, arrivato in aereo. Poi se ne andato e non è tornato più”.
“Non è vero,” avevo detto.
“Invece sì, è venuto a caccia di animali”.
Una sera, durante una tamburata di luna piena, che preparava la stagione della caccia, ero uscito dalla capanna per andare a vedere la luna che si alzava sopra le vette del Kisantu. Era una bella notte e gli zii danzavano e bevevano intorno al fuoco col corpo cosparso di cenere. Anche le zie danzavano, e tutti avevano la faccia dipinta a strisce colorate e il corpo nudo. Io ero rimasto fuori dalla capanna a guardare la luna seduto su un tronco quando, all’improvviso, avevo sentito una bastonata sulla testa. Non tanto forte, ma abbastanza da sbattermi a terra e a lasciarmi un po’ stordito accanto al tronco. Non capivo cosa avessi fatto per meritarla, ma ci doveva essere una ragione. Poi mi avevano legato le mani e con una specie di scopino avevano cominciato a strofinarmi il corpo con un unguento colorato fino a dipingermi la pelle di rosso. A un tratto mi ero trovato vicino al fuoco. Da certe parole avevo capito che alcuni di loro non erano i miei zii, e neanche dei wakintu, perché non capivo tutto quello che dicevano, e anche se questo mi risparmiava di fare congetture sulla mia sorte, avevo paura di questi sconosciuti. Capita che certe tribù vadano ospiti da altre per mangiare le frattaglie dei giovani per rinvigorire lo spirito o per chiudere dentro la loro pancia la carne fresca di qualche sacrificato.
Sul fuoco affianco a me c’era uno spiedo con una stecca sopra. “Ma che, mi volete mangiare?” Non potevo pensare come questi stranieri potessero preferire la mia carne a quella di un bue o di una gazzella, per esempio. Tutto però mi faceva pensare che, nel caso mi avessero sacrificato, non mi avrebbero mangiato crudo, e questo già era qualcosa. Il fuoco si indeboliva sempre di più e pareva più disposto a spegnersi che a cuocermi. In quel momento mi ero chiesto diverse volte se la mia carne era uguale a quella dei miei cugini, oppure anche dentro era diversa. Comunque, l’idea di essere offerto a degli ospiti non mi piaceva affatto e anche se il fuoco non ardeva molto avevo chiesto lo stesso di slegarmi e di lasciarmi stare, altrimenti il tumuto, avevo detto, avrebbe staccato la loro testa e l’avrebbe fatta rotolare dalle cime del Kisantu fino al fiume. Le miei zie erano sparite tutte ed era inutile chiamarle per avere aiuto. Il mio corpo era diventato rosso e non riuscivo a distinguere le ferite, se mai ci fossero state.
La luna si era appena alzata sopra le vette del Kisantu ed era diventata tonda e bianca come non si era mai vista prima da allora. Ero rimasto lì vicino al fuoco per un buon tratto mentre i miei zii e quel gruppo di stranieri danzavano intorno a me. Poi si erano fermati all’unisono a guardare la luna che cresceva in dismisura. Sembrava un occhio gigante appoggiato sulle vette del Kisantu. Io tra me e me dicevo: “Aiutami, luna, fammi slegare”. A un certo punto, uno di questi stranieri, aveva alzato le braccia verso la luna, perché aveva capito che c’era qualcosa tra la luna e me; poi lo seguirono gli altri e infine tutto il villaggio. Dicevano “luna” e guardavano me; poi, “bianca” e guardavano ancora me. Alla fine mi avevano slegato, mi avevano tolto l’unguento con dell’acqua calda e mi avevano coricato per terra mentre tutti danzavano intorno, curandosi di non calpestarmi. C’era stato, sembrava evidente, un cambio di decisione repentino. Mi avevano alzato sotto braccio, mi avevano presso per le mani e per i piedi, nel frattempo tutti mi toccavano e ringraziavano la luna che si era alzata ancora di più sopra le montagne. Poi mi avevano portato dentro la capanna, dove mi aspettavano le zie, e mi avevano fatto dormire su un pagliericcio nuovo. Io non volevo dormire su quel pagliericcio, non ero abituato, ma loro insistevano che dovevo dormire lì lo stesso. Quella notte avevo sognato che ero un guerriero che combatteva da solo contro i wakintu. La mattina quando mi ero svegliato le zie mi avevano raccontato che gli zii, insieme ai cugini e al resto del villaggio, erano andati a prendere a bastonate i wakintu e che i wakintu erano scappati sull’altra sponda del fiume. Dicevano che era stata la luna ad aiutarli e che avevano finalmente capito che io ero figlio della luna e che la luna aveva parlato loro e così via. Io non sapevo se era un bene o un male. In ogni modo, avevo ringraziato il tumuto per questo riconoscimento e per la prima volta lo avevo accarezzato sulla testa.

Per saperne di più:
foto di Adrian Bravi Adrian Bravi: l'antieroe


Racconto senza chiaro di luna


Si finiva sempre per parlare di lei, dell’Ines, anche molti anni dopo, le rare volte che ci si trovava tutte insieme. Di solito succedeva  il pomeriggio di Santo Stefano. Oppure  il giorno dei morti, di ritorno dal cimitero. Più spesso, al matrimonio di qualche nipote lontana, dopo che gli sposi avevano tagliato la torta, e tutti cominciavano a ballare.
Allora,  rimaste sole attorno alla tavola, le caviglie libere finalmente dai cinturini delle scarpe, le sorelle facevano gli ultimi commenti sui fiori nella sala, sulla torta avanzata, e su quanto sarebbe durato l’entusiasmo d’amore della nuova coppia.
Era generalmente quando il discorso prendeva quella piega che una di loro nominava l’Ines. Le altre abbassavano la voce, qualcuna faceva finta di niente o cercava di cambiare discorso, sono cose vecchie, cosa vai a tirar fuori. Ma non c’era verso, si finiva sempre per parlare di quella storia. E ce n’erano delle cose da dire, e da ricordare.
Ognuno poteva dire la sua,  su al paese, chi c’era in  quegli anni almeno. Sulla loro famiglia,  sull’Ines, e  sul Fausto naturalmente.
Che poi, passi per il Fausto, ma  se c’era una da cui non aspettarsi quello che era successo, era proprio lei, chi se lo sarebbe immaginato, con tutte le belle figlie che c’erano allora,. A quel punto di solito le sorelle tiravano su gli occhi e si spiavano senza parere, facendo paragoni sugli sgarbi dei guai e delle vite.

L’Ines non era  mai stata  una bellezza. Sarà che era nata che la madre era già un po’ in là con gli anni. Due ne aveva fatte quella volta, ma l’altra bambina era morta subito, e l’Ines l’avevano salvata per un pelo. Non avevano mai capito se era una fortuna o una disgrazia, vedersela crescere davanti secca come una saracca, con quei colori strani che nessuno aveva mai visto nella loro famiglia e neanche in paese.
Ha gli occhi bianchi, aveva detto la levatrice avvicinandola ancora gocciolante di sangue alla finestra. Poi, l’Annina la sorella più grande se lo ricordava bene, le aveva rovesciato le mani e i piedi e l’aveva portata in fretta  fuori dalla stanza.  Mamma era troppo sfinita per badarci, e loro  impensierite che ci fosse un’altra bocca da riempire. Papà, già all’osteria a far festa,  chissà quando si sarebbe rivisto a casa.

Dopo l’Ines per fortuna non ci furono altri figli, e lei crebbe così, in punta di piedi,  senza tante attenzioni, nessuno aveva tempo e pensieri da dedicarle. Ma non sembrava patirne, pensavano le sorelle grandi, guardando un po’ inquiete il celeste dei suoi occhi e i capelli quasi bianchi, come strinati dal sole. Era fatta a suo modo, non aveva mai fame o sonno,  non faceva le tigne solite dei bambini, era come se sapesse da subito di essere arrivata troppo tardi, e che alla vita che le era capitata doveva abituarsi e basta, senza storie.

Eh sì che di storie ce n’erano nella casa dove stavano da bambine, su quello spuntone  di montagna secco di polvere in estate e di gelo d’inverno. Un groviglio di pietre tenute insieme dalla miseria. In cima alla salita la chiesa e il cimitero, per le preghiere senza risposta delle donne; all’inizio del paese l’osteria, dove gli uomini sgravavano le angherie della vita almeno fino al  giorno dopo.
Urla, pianti, male parole  per una fetta di polenta, uno straccio da mettersi addosso, un paio di scarpe. Brutte cose, a raccontarle oggi non ci si crede, si ripetevano in seguito le sorelle carezzando con gli occhi il  ben di dio che le circondava. E spostavano la mente in fretta da quei giorni di fatica e fame, chine ancora bambine sul sudore di quel brandello di terra di nessuno, che nessuno reclamava perché non aveva niente da dare. Le ore afose  dell’estate, il buio dei pomeriggi di novembre, i giorni di festa senza allegria, a ingoiare la rabbia e l’amarezza per tutto quello che non avevano e che non potevano essere.
L’Ines, lei cresceva senza un perchè come una pianta selvatica, sempre coperta dalla testa ai piedi anche in estate, attenta al fuoco del sole sul velo trasparente della pelle. A volte L’Ines, lei cresceva senza un perchè come una pianta selvatica, sempre coperta dalla testa ai piedi anche in estate, attenta al fuoco del sole sul velo trasparente della pelle.capitava che da bambini, intanto che giocavano tutti insieme in strada,  qualcuno le corresse dietro, per sollevarle  tutti quegli stracci, e vedere come era fatta sotto. Ma lei scappava, ed era così svelta che nessuno riusciva mai a prenderla. Neanche il Fausto, che era il più alto di tutti, perché lei correva ancora più forte quando se lo vedeva dietro. Per un bel po’ se ne stava nascosta chissà dove, e poi tornava a casa,  senza fretta, con quei capelli pallidi che le facevano ombra alle guance. Raccogliti i capelli, sfacciata, le sibilava la madre quando la vedeva sull’uscio, e rimettiti in ordine. Dove sei stata fino adesso?

L’Ines le sorrideva, forse si aspettava una carezza o magari una sberla che le facesse sentire per una volta come era la mano di mamma sulla pelle.  Ma lei si era già voltata sul suo lavoro, senza neanche aspettare una risposta, e a carezzarla o menarla non ci pensava neanche. Quella figlia senza colori le dava un’angustia strana, non la toccava volentieri, già faceva fatica a tenerci gli occhi sopra. A volte le succedeva di pensare a quell’altra, che era morta senza che ci fosse stato il tempo di battezzarla. Non gliel’avevano neanche fatta vedere, istupidita com’era da tutto quel sangue che le era corso fuori. Forse lei non era così. Era normale, come tutti gli altri suoi figli, venuti al mondo senza bisogno della levatrice, con i capelli scuri e  le guance rotonde.
Un giorno o l’altro doveva decidersi e parlare con don Fermo, di tutti i sogni che le avevano rovinato il sonno di quei mesi, prima che le gemelle nascessero. Anche altre cose doveva raccontargli, che se le teneva dentro e si vergognava,  perché lo sapeva che ci sono giorni che certe cose non si fanno, è peccato, ma vallo a spiegare all’uomo quando è pieno di vino e di istinto. E che non si può andare contro natura, poi le cose vanno a finir male, guarda un po’ cos’era successo a queste figlie, una presa dal demonio e l’altra, che anche se era qui, dava  tanto da pensare.

Così l’Ines non si decise mai a rivelare alla madre e a nessuno dove stesse tutto quel tempo nascosta. Chissà se al Fausto lo disse in seguito, o se lui lo sapeva già da subito, quello rimase un dubbio che  le sorelle non riuscirono mai a sciogliere.

Intanto il tempo si mangiava tutto, e l’Ines tutt’a un tratto smise di andare in chiesa. La madre  ne fece una tragedia da strapparsi i capelli, anche quello doveva patire nella vita, una figlia che non si confessa e la domenica va a zonzo come una vagabonda senza Dio. E dire che don Fermo l’aveva ben messa in guardia, quando, sotterrato il marito,  si era finalmente decisa a raccontargli per filo e per segno com’era andata quella volta che avevano fatto le gemelle. Lui aveva fatto un mucchio di domande  e poi si era raccomandato di mandargliela subito, nel primo pomeriggio, in sacrestia, prima che arrivassero i monelli dell’oratorio, e che ci avrebbe pensato lui a sistemare quell’anima in pericolo.  
L’Ines non aveva chiesto niente, e si era avviata nel silenzio del dopopranzo,  coperta da uno scialle che le nascondeva anche i capelli. E così aveva fatto nei giorni seguenti. Ma quando arrivò la messa della domenica, si tolse lo scialle e disse che  sarebbe rimasta a casa. Anzi non sarebbe mai più entrata in chiesa. Non ci fu verso di cavarne altro. E a niente valsero le lacrime e le suppliche della madre. Le sorelle pensarono che se lei non voleva era inutile insistere, anzi furono perfino sollevate di risparmiarsi quella passerella con l’Ines per il paese,  con gli sguardi della gente che più il tempo passava e più si faceva meraviglia e si dava di gomito. Neanche una parola le dissero, e la sera, prima di mettersi a dormire, l’Annina la più grande, fece finta di non vederli  i graffi vivi sul collo e sul petto della sorella, e se ne guardò dal parlarne con alcuno.

C’era un’altra cosa che in casa non si sapevano spiegare, ed era la faccenda dei libri. A scuola c’erano andate tutte il minimo indispensabile per non fermarsi alla croce come i vecchi, ma era finita lì. La maestra una volta si era arrampicata fino a casa loro e, seduta alla tavola di cucina, aveva provato a dire che sì, l’Ines era intelligente e aveva passione per lo studio, ed era un peccato che smettesse così presto, e se ci fosse stato il modo... Poi, un po’ confusa per via che la madre se ne stava zitta  e l’Ines, in piedi vicino al camino non tirava su gli occhi da terra,  e anche per la miseria che si era trovata davanti, si era alzata e senza più insistere era andata alla porta. Sulla tavola però aveva lasciato un po’ di libri. Per te, aveva detto cercandole gli occhi sotto il velo dei capelli, prima di voltarsi e sparire in strada.
Così adesso c’erano anche i libri a riempirle la testa. Come se non fosse già abbastanza strana di suo. Li doveva  aver letti e riletti chissà quante volte, da come erano consumati. La madre la guardava con sospetto, quasi spaurita, seguire attenta quelle file di segni misteriosi. Le sorelle grandi, prese dalla curiosità, avevano voluto sapere qualcosa di quello che c’era lì dentro, e allora una sera lei, nell’ultima luce del sole,  aveva cominciato a leggere. Per essere belle erano belle le parole che le uscivano dalla bocca. Parlavano d’amore, e loro erano tutte in quell’età che si comincia a pensarci, e a guardarsi intorno. Basta sciocchezze, era intervenuta la madre turbata dalle guance accese delle figlie e dai pensieri nuovi che sentiva nell’aria, e tu metti via, aveva aggiunto rivolta all’Ines. Era già difficile tirar su cinque figlie da sola, e tenerle  sulla terra, lontane dalle bugie dei libri. L’Ines aveva ubbidito senza protestare. Aveva smesso di andare a scuola, lavorava in casa e fuori, non parlava se non c’era bisogno. Ma aveva continuato a leggere e rileggere i suoi libri, tutte le volte che poteva.
In paese la gente si faceva un mucchio di domande. Intanto, con tutti quegli stracci che si buttava addosso e per via che  non parlava mai di sé, non riuscivano a capire se l’Ines fosse ancora una bambina, e quando sarebbe diventata una donna. In ogni modo la consideravano brutta, vicino alle sorelle, senza i ricci folti della Franca, o il corpo rotondo e le gambe tornite dell’Annina,  il sorriso pieno di promesse della Bruna e la scioltezza  di spirito della Delia. Troppo magra, con quegli occhi che le mangiavano la faccia e quei capelli da zingara vecchia. Oltretutto senza una lira di dote, così era l’Ines, lo sapevano tutti. Come le sue sorelle, peraltro. Solo che loro almeno erano belle, e anzi qualcuno aveva cominciato presto ad approfittarsene. Anche di questo parlava la gente, sempre più spesso, intanto che  lei diventava  ragazza, e durante la festa del paese rimaneva appoggiata a un tronco o seduta in disparte, a guardare gli altri che passeggiavano  sottobraccio o scambiavano parole allegre. Quelli che da bambini la rincorrevano nei prati, ora le lanciavano sguardi noncuranti, e le preferivano le altre, quelle normali. Il Fausto era ancora il più alto e il più bello, con tutte le ragazze che se lo mangiavano con gli occhi, gli passavano davanti con le labbra dipinte  e facevano a gara per farsi invitare a ballare.
La madre chiudeva un occhio su quello che succedeva, e ringraziava dentro di sé quando una delle più grandi tornava a casa con un salame sotto il braccio, qualche uovo fresco, una bottiglia di vino e perché no, un bel vestito nuovo a fiori vivaci da fare invidia alle vicine. L’Ines era sicuro che le sarebbe rimasta lì per la vecchiaia, ed era già qualcosa, visto che altro non ci si poteva aspettare da lei.

Tutto invece cominciò a cambiare in fretta quel pomeriggio di giugno che si  presentò alla porta senza chiedere permesso l’Elvira, la madre del Fausto. Aveva un pezzo di carta in mano e una storia da non credere sulla bocca. La sputò fuori tutta d’un fiato, con la rabbia che le macchiava le guance e la voce. Parlò solo lei, continuando a sventolare quel foglio sgualcito. E poi se ne andò, dopo averlo sbattuto con malagrazia sotto il naso di tutte loro.
Fuori faceva già scuro e le sorelle dell’Ines  erano ancora lì intorno alla tavola della cucina con la madre, a masticare l’urlata dell’Elvira, incerte se ci fosse da crederci. Con le novità degli ultimi tempi, per giunta. Cose grosse.

Per prima cosa il Fausto si era fidanzato. Con tutti i crismi, il pranzo e la promessa. Per l’anello aveva rimediato con quello della madre,  che tanto erano anni che non riusciva più ad infilarci il dito. Sulla faccenda come al solito c’erano molte voci perché il Fausto lui diceva poco, era più bravo a far chiacchierare gli altri. Della fidanzata, si sapeva solo che si chiamava Lia e stava in un paese giù a valle. I genitori erano mezzadri nelle campagne dei conti Farnè, a quattrini non se la passavano male e tenevano quella figlia come una reliquia, nessuno l’aveva mai vista a feste o in giro con quelli della sua età. Il Fausto però doveva pur aver trovato il modo per vederlo e farselo piacere perché in quattro e quattr’otto si era impuntata e l’aveva voluto a tutti i costi. I genitori all’inizio avevano storto un po’ il naso ma poi si erano convinti, e quando lui la portò in paese per farla conoscere all’Elvira si capì anche il perché. La ragazza non era più tanto ragazza e forse non era stata una gran fatica tenerla da reliquia, in ogni modo non doveva esserci stata la fila.
L’Elvira una volta tanto non cercò parole da dire. E’vero, la sposa non era come se la aspettava. E allora? Meglio che abbassassero la cresta, tutti e tre,  e la ringraziassero invece, per quel figlio fatto a regola d’arte che gli metteva davanti. E che glielo trattassero con le mani della festa, che certe fortune passano una volta sola nella vita. Il Fausto si sistemava alla grande, questo contava, e avrebbe fatto star bene anche tutte loro, un buon matrimonio per le sorelle e una vecchiaia senza pensieri per lei. E che nessuno si azzardasse a mettersi in mezzo, con chiacchiere o altro.

***

Passavano le ore ma a casa dell’Ines nessuna aveva un pensiero per la cena, le sorelle e la madre. Avevano cominciato a farsi qualche domanda, lì mezze al buio, senza sapere bene da dove cominciare perché in tutta quella storia ancora non si raccapezzavano. A così pochi giorni dalle nozze del Fausto. Con tutto già pronto, il vestito, gli addobbi della chiesa, gli zuccherini per gli invitati.  La famiglia di lei non si era fatta guardare dietro, chissà da quanto avevano da parte i soldi per quel giorno.
Senza contare il viaggio. Quella era la cosa più grossa di tutte. Appena maritati partivano tutti, il Fausto, sua moglie e tutta la famiglia di lei. C’erano stati dei guai grossi con le terre dei conti Farnè, per colpa della politica, ed era finita che molti mezzadri avevano perso tutto, casa e lavoro, roba da ridursi all’elemosina.  Ma i fratelli di lei erano ammanicati fin dall’inizio con quelli del Fascio,  qualcuno ci aveva messo la parola giusta e così gli avevano dato casa e  podere nuovi di zecca giù in Bassitalia, dove prima c’era solo acqua ferma e malattie, e adesso invece dopo la bonifica dicevano che crescesse terra buona da coltivare, alberi mai visti prima e perfino città con strade e negozi. Il tempo di sistemarsi e il Fausto avrebbe fatto andar giù anche la madre e le sorelle, così l’avrebbero finita  per sempre con quella vita senza cuore. L’Elvira da mesi non viveva che per  questo, e solo così si era rassegnata a veder partire quel figlio, che piuttosto avrebbe preferito che le tagliassero la mano destra.
E adesso, cosa voleva dire quel foglio, nascosto nel cassetto del Fausto? L’Annina, la più grande, cominciava a capire come stavano le cose, ma non voleva essere lei la prima a parlare, tanta era la rabbia che aveva addosso. Già era dura da sopportare quella contadina vestita di nuovo che se lo portava via per due lire e un pezzo di terra, lasciandole tutte con un pugno di mosche. E dire che loro, pensava guardando di sbieco le sorelle, non si erano mai tirate indietro quando c’era da divertirsi un po’, e mica per soldi o altro, solo così, perché tutte ci avevano sperato un po’ di riuscire a mettere le mani sul Fausto. E invece,  che storia si doveva sentire.
Tenetele stretta la sottana, che quella ha il demonio dentro, erano state le ultime urla dell’Elvira, prima di sbattersi dietro la porta. Proprio così le aveva lasciate, che fuori era sera fatta.
E quella gatta morta dell’Ines che ancora non tornava. Ma dov’è che si era cacciata?

La aspettarono tutta  notte, quella notte vuota, senza neanche un lembo di luna nel cielo. A leggere e rileggere a memoria quelle righe scritte a mano, parole che avevano già sentito dalla voce della sorella un tramonto di tanto tempo prima, eppure se ne erano così riempite da non scordarsele più.
Ma cosa c’entrava il Fausto con i libri dell’Ines, e con le sue stramberie? Si conoscevano da sempre, come tutti in paese, ma lui ormai era un uomo fatto, e lei una bambinetta senza età. Per quanto, ragionava fra sé l’Annina, col tempo bisogna fare i conti tutti, e anche sua sorella era lì per finire i sedici anni.
Le altre non ce la facevano più a stare zitte, la Delia poi che ne aveva sempre per tutti era già passata alle parole grosse, che era impossibile che il Fausto si fosse perso con l’Ines,  ed era tutta  gelosia dell’Elvira, che se non fosse stato per l’odore dei soldi che le tappava il naso quel figlio se lo sarebbe tenuto con lei a casa,  anche nel letto magari. La Franca buttava acqua sul fuoco, chissà cosa si era immaginata l’Elvira con quel biglietto, che se l’era fatto leggere da don Fermo e ci aveva costruito su un romanzo, non voleva dir niente, magari quella sciocchina dell’Ines si era fatta anche lei qualche idea sul Fausto, ma lui figurarsi, e lì la Franca si ricacciava in gola certi batticuori, il solletico dell’erba sulle gambe, le parole di lui e le cose che gli piacevano, meglio non pensarci più. La madre, con le dita aggrappate ai capelli, seguitava a dare la colpa ai libri e al non andare più in chiesa, e a quella figlia sbagliata ancora prima di venire al mondo, che era meglio se la seppellivano nella stessa cassa con l’altra. Già la gente non era mai stanca di sparlare dietro e la teneva lontana più che poteva, e se questa storia del biglietto nascosto fra le mutande del Fausto veniva fuori, c’era da morire di vergogna. Lui dopo maritato chi lo vedeva più, e quell’oca smorta dell’Ines lì a far ridere il paese, sulle sue spalle, rovinata per niente.
L’Annina si alzò all’improvviso, afferrò la lampada a petrolio e attraversò la cucina. Voglio dare un’occhiata qui dentro, disse spalancando con malagrazia la tenda che nascondeva il letto della sorella e le sue cose. Le altre girarono la testa incuriosite. La madre non fece neanche quello. Guardava fissa fuori dalla finestra, quel cielo cieco da far paura.

Le sorelle anni dopo preferivano saltare i ricordi di quella brutta notte senza sonno, di quanto frugarono e buttarono per aria e ne dissero e ne pensarono,  per trovare una spiegazione. Si raccontavano volentieri invece di quando, più avanti, una dopo l’altra cominciarono a lavorare in città, a servizio nelle case dei signori, ci mangiavano e dormivano anche, e le domeniche pomeriggio a passeggio e a ballare, i nuovi filarini e la miseria un po’ più lontana. Erano stati anni belli, finiti in fretta, poi erano arrivati i mariti e i figli,  la guerra, i sacrifici, insomma le cose della vita. Ed eccoci qui, concludevano tenendo ben nascosti dentro i pentimenti che le prendevano ogni tanto, le rabbie rimaste, i dubbi che non si erano mai levate.  E anche la curiosità, che affetto vero non era mai stato, di sapere dell’Ines, la sorella più piccola e strana, e rivederla anche, un giorno o l’altro, dopo tutto quel tempo. Se era ancora al mondo.
La madre invece continuò sempre a pensarci, e anche più di prima, lei che non si mosse mai dal paese fino al giorno che la chiusero nella cassa, e furono le vicine a farlo, perché successe all’improvviso,  una sera non si presentò al rosario e la trovarono bocconi dietro la stufa della cucina,  si trattò solo di chiuderle gli occhi e sistemare per la veglia. Le figlie arrivarono appena poterono. L’Ines lei non c’era già più da tempo, e chissà se lo imparò e quando.

Il Fausto si maritò il giorno fissato, la domenica dell’Ascensione. C’era tutto il paese, anche le sorelle dell’Ines, obbligate ad andare per non far venire idee alla gente. Lei, dissero che era a letto con la febbre alta, per il gran caldo.
Ma l’Ines non era malata.  A casa la rividero solo il giorno dopo, quando il Fausto era già sul treno per la Bassitalia con la sua nuova famiglia. E l’Elvira  si era messa a letto, sfinita fino all’ultimo dal pensiero che lo sposalizio andasse per aria, e che la fidanzata non ne volesse più sapere, se solo  imparava che il Fausto era tornato  appena in tempo per infilarsi il vestito ed entrare in chiesa quella mattina, dopo due giorni e due notti che non si faceva vedere. In casa non sapevano più a che santo votarsi, in giro non potevano chiedere, neanche agli amici e meno che mai alla famiglia dell’Ines,  guai se si fosse saputo, roba da fare annullare tutto, e addio fortuna e benessere.
Con la scusa del caldo, l’Ines non si rivide in paese per un bel po’, fino a quando almeno non le sparirono i segni di tutte le botte che prese da sua madre, perché raccontasse del biglietto, del Fausto, e dove si era nascosta, con chi, e per fare cosa,  tre giorni e tre notti. La madre si spellò le mani, alle sorelle si seccò la gola a insistere per sapere. Lei non era abituata alle domande e rimase zitta, lasciandole tutte con i loro sospetti sporchi e non abbassò mai quegli occhi celesti che sembravano più lucidi e vivi quel giorno.

***

Ma la prima volta che mise piede fuori casa, tempo dopo, quando la vide con i capelli raccolti in ordine sulla nuca e un vecchio vestito dell’Annina con il pizzo intorno al collo, e non sembrava più la stessa anche nel camminare, la madre si tolse ogni dubbio e decise in fretta il da farsi. Poco dopo, con il capo coperto dallo scialle e in tasca quei pochi soldi che le mandavano le figlie dalla città, bussava alla porta della sacrestia, che quella era l’ora che la perpetua preparava il pranzo.
L’Ines accettò per marito Gusto il ciabattino,  che aveva non si sa quanti anni più di lei e gli mancava una gamba fin dalla prima guerra, solo a condizione di sposarsi nel paese di lui, senza don Fermo a benedirli. Nella casa della madre rimasero anche dopo che arrivò la bimba. L’Ines  quella mattina fece tutto senza l’aiuto di nessuno e chiamò sua figlia  Alba, perché era nata insieme al sole, e del sole non doveva mai avere paura. Le insegnò anche a essere bella, a ridere con gli occhi, a non nascondersi. La gente, dopo la meraviglia iniziale per quel matrimonio così in fretta e furia e lontano dal paese, col tempo si abituò a vederla l’Ines, vestita come si deve, che rispondeva ai saluti senza abbassare la testa, faceva spesa al mercato, passeggiava per mano parlando fitto a quella figlia che aveva preso i suoi occhi celesti come laghi, mentre  i capelli erano scuri e ricci  sulla schiena. Gusto era solo al mondo e non gli sembrava vero di vedersi attorno una donna tutta per sé e una bambina che entrava correndo nella bottega,  stava lì a guardarlo lavorare, e intanto gli raccontava un mucchio di cose. La suocera poi lo trattò sempre come un re, per ringraziarlo di averle tirate fuori senza tante storie dalla vergogna, ed essersi preso quella figlia senza giudizio.
Che alla gente si poteva anche darla a bere ma lei era sempre dell’idea che qualcosa di storto ci fosse nell’Ines. Se no, che bisogno aveva certe notti col buio fondo di uscire di nascosto, e rimanere fuori fino all’alba, senza che mai, fin da bambina, si fosse saputo dove andava a nascondersi. Quella vecchia storia, vera o falsa che fosse, grazie a Dio nessuno, anche se c’era quella bambina bella come una stella, poteva più tirarla fuori: si faceva coraggio la madre, ma una mano le strizzava il cuore, e non sapeva perché, mentre cambiava posizione nel letto con gli occhi spalancati, e le ore non passavano mai.

L’ultima notte quando la sentì uscire di casa, si alzò dal letto, andò alla finestra e guardò fuori. L’Ines correva sicura come da bambina nel buio. La seguì con lo sguardo finchè ci riuscì, ma la vista da vecchia  le faceva brutti scherzi. Che strano, le sembrava addirittura che l’Ines non fosse sola giù in strada, che ci fosse qualcuno che correva con lei, ma non era sicura. Volle  correrle dietro e chiamarla per capire finalmente. Cercò almeno di aprire la finestra e invece dovette tornarsene a letto,  gli occhi  le si chiudevano per forza e le gambe non la tenevano su.  

Poi fu di nuovo giovane e con gli occhi buoni. C’era l’Ines che correva svelta fuori dal paese, avvolta dai suoi vecchi stracci e con i capelli sparsi nel buio. Allungò il passo dietro di lei, sempre più in fretta, e quando finalmente riuscì ad arrivarle alle spalle e la poteva quasi toccare,  solo allora si accorse dell’altra, che era con lei, nel ritaglio improvviso della luna.  Correvano fianco a fianco, le due Ines, tenendosi strette per mano, così vicine che a tratti sembravano una sola. Ma dell’altra non le riuscì di vedere la faccia, il colore dei capelli e gli occhi, perché tutt’a un tratto la luna si era girata nel cielo e lei era tornata vecchia e pesante sulle gambe.
Non aveva più fiato e dovette fermarsi in mezzo alla strada, ma continuò a seguirle con gli occhi tutte e due, sempre più lontane e insieme. Era la prima volta che poteva farlo e anche l’ultima, e dire che tutta la vita l’aveva portata nel cuore quell’altra Ines che non aveva mai visto, e per quel  regalo doveva dire grazie alla luna nascosta nel ventre di quella notte.

Si svegliò tardi per il silenzio quella mattina, e con in testa quel sogno che non la lasciò più. Non trovò l’Ines nel letto, né sua figlia. Gusto sembrava che dormisse, col respiro di un bambino,  sotto il lenzuolo fermo.

Ci fu chi disse che l’Ines e la bambina se ne erano andate a piedi e sole dal paese, quella notte. Qualcuno raccontò invece che c’era il Fausto che  le aspettava alla Casa Buia  e che le aveva portate via tutte e due su una gran macchina lucida. E altri aggiunsero che si erano sempre incontrati lì, lui e l’Ines fin da ragazzi, alla Casa Buia, dove nessuno si azzardava nemmeno ad avvicinarsi, per le  brutte storie di streghe e spiriti che si nascondevano sotto quelle pietre. Molti si domandarono come avesse fatto l’Ines a tenersi stretta il Fausto per tutto quel tempo, e cosa lo avesse fatto tornare da lei, gran signore come era diventato. Poi le voci del paese non le fermò più nessuno, chi non si spiegava il fatto che a Gusto gli fosse venuto un colpo nel sonno proprio quella notte, chi tirava fuori tutte le stranezze dell’Ines fin da quando era nata, che non andava in chiesa, e forse non c’era mai stato neanche il matrimonio, e che cosa nascondeva sotto tutti quegli stracci che si metteva, un corpo da vergognarsi, le magie dei libri, o quella figlia troppo bella che nessuno aveva visto nascere, o il fuoco del demonio, come aveva detto tanto tempo prima l’Elvira e  come ripetè con sicurezza don Fermo. Qualcuno giurò di sapere  che l’Ines sotto le vesti teneva qualcosa di segreto, bellissimo, e vivo, che tirava fuori solo per fare ammattire il Fausto, là alla Casa Buia, nelle notti senza luna. E che era per quello, solo per quello che lui non aveva resistito lontano da lei ed era tornato a prenderla per sempre.

Comunque fossero andate le cose, le sorelle ormai vecchie a quel punto dovevano smettere di raccontare, perché dopo quella notte dell’Ines, della bambina e del Fausto non si seppe mai più niente. La gente continuò lo stesso a parlare di loro, e a dire la sua, nelle sere a veglia, fuori dalla chiesa o ai tavoli dell’osteria, ma alla fine rimasero solo chiacchiere di vecchi, e fantasie e sogni vissuti dagli altri, come spesso finiscono per essere i ricordi.